DE ANDRÉ ARRIVA AL CINEMA. DORI GHEZZI: “IL SUO PARADISO ERA IN TERRA”

DE ANDRÉ ARRIVA AL CINEMA. DORI GHEZZI: “IL SUO PARADISO ERA IN TERRA”

de andrè(di FLAVIO BRIGHENTI, case Repubblica)Per due giorni, cialis il 27 e 28 maggio, arriva nei cinema “Faber in Sardegna & L’ultimo concerto di Fabrizio De André”. Ne parliamo con la moglie, che è anche presidente della Fondazione De André, travolta dall’amore per l’artista. “È stato un maestro di pensiero. Ma andiamoci piano con la beatificazione. Non l’avrebbe voluta”. L’immancabile sigaretta accesa tra le dita. Il dorso della mano che la stringe tutto sporco di terra. E mentre la bocca aspira il fumo con avidità, l’espressione che cogli sotto il ciuffo ti trasmette un senso di infinita serenità. Lui è il Maestro e questa foto versione contadino è quella (emblematica) scelta per la locandina di Faber in Sardegna & L’ultimo concerto di Fabrizio De André. È il film – chiamiamolo così, anche se in realtà si tratta dell’abbinamento di due (peraltro splendidi) documentari – che offre in duplice dimensione, privata e pubblica, la statura titanica del cantautore: sarà nei cinema per due giorni, il 27 e il 28 maggio. Attraverso testimonianze, immagini e aneddoti svela nella prima parte il rapporto di fulminante amore che legò Faber alla Sardegna e in particolare all’Agnata, in Gallura, la fattoria dove consumò la personale e proficua utopia del Cincinnato part time. Nella seconda parte regala invece l’emozionante, metronomica perfezione di una performance di De André, la dimensione live che esaltava le sue virtù di cantante, autore e capobanda carismatico. Si tratta del concerto ripreso al Teatro Brancaccio di Roma dove quel tour d’addio celebrò due date memorabili, il 13 e 14 febbraio del 1998: qui la registrazione del concerto è disponibile in una versione inedita, restaurata e rimasterizzata in ultra HD con audio 5.1. Del film e del suo amatissimo protagonista parliamo con Dori Ghezzi, che di Faber fu dal 1974 la compagna di vita – Faber se ne andò l’11 gennaio 1999 – condividendo felicità e sofferenze, gioie e nevrosi, successi e traumi, come il sequestro di cui furono vittime nella seconda metà del 1979.

“La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: 24.000 chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso…”, disse Fabrizio. Insieme a Gigi Riva, resta il miglior ambasciatore dell’isola proveniente dal “continente”.
“Direi proprio di sì, al di là della bellezza estetica sono tra quelli che hanno capito meglio la vera essenza del’isola”, conferma Dori. “Gianfranco Cabiddu, che è il regista di Faber in Sardegna, è riuscito poi a creare un’autentica osmosi tra lui e Fabrizio: da sardo è riuscito a vedere la sua terra con lo stesso sguardo del ‘forestiero’, lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore, lo stesso amore, la stessa visione godereccia della Sardegna. Insomma, la precisa sensazione dell’immensa fortuna che si prova a vivere lì, a cogliere profondità di campo visivo che non trovi altrove: una nitidezza unica, favolosa”.

Cos’era l’Agnata? Lo spazio per una riconversione alla natura? Una Comune moderna? Un sorta di agriturismo ante litteram?
“In un primo momento era semplicemente il luogo dove io e Fabrizio avevamo scelto di vivere, presto si trasformò in un punto di incontro, una sorta di lussureggiante Agorà. Non c’era bisogno di chiamare prima, niente prenotazioni. Amici e turisti arrivavano, magari raccontando ‘passavo di qua…’ – immagini se uno poteva passare lì per caso – e noi si dava ospitalità a tutti con piacere. Chiunque poteva godere di questa sua intuizione”.

Ma Fabrizio credeva davvero di essere un contadino?
“Ci credeva come credeva in tutto quello che faceva. Qualunque fossero le sua scelte, e parlo anche degli hobby, andava sempre a fondo, non viveva mai nulla in superficie, e anche in quella occasione si dimostrò entusiasta della vita. Si procurò i libri giusti e prese a studiare come un secchione: voleva sapere ogni cosa su allevamenti e coltivazioni… E quando trovava gli argomenti più appassionanti, chessò: come si coltiva una vigna, non lo fermavi più. La cosa stupefacente poi è che a Faber riuscivano imprese impossibili, più gli dicevano “lascia stare quel pezzo di terra, lì non crescerà mai nulla”, più lui si incaponiva. Ordinava sementi da lontano – ricordo una volta che ne giunsero copiose dall’Olanda, lui pretendeva sempre il meglio – poi una volta ottenuto quel che voleva si dannava fino a quando la terra non gli dava ragione. E a quel punto il suo orgoglio diventava la nostra felicità”.

L’orgoglio più grande del Faber coltivatore?
“L’olio era straordinario, ne era particolarmente orgoglioso. Fra l’altro tra i nostri amici c’era anche Frampi Carapelli, uno che della materia se ne intende. Veniva, lo studiava, lo analizzava come fosse un sommelier, e poi commentava: buonissimo, eccezionale”.

Come e quando arrivaste all’Agnata?
“Faber coltivava il desiderio di tornare in campagna, dove era cresciuto da bambino, a Revignano d’Asti. C’eravamo conosciuti da poco, e dopo la delusione di Storia di un impiegato, un disco male accolto dal pubblico all’uscita, mi confidò l’intenzione di voler cambiare vita radicalmente e realizzare quel vecchio sogno. Anch’io d’altronde sentivo l’esigenza di stare un po’ defilata dalla gente. Lui genovese, io milanese, iniziammo a cercare il fondo che facesse al caso nostro dalle parti di Ovada, in Piemonte. Intanto Faber, che aveva già casa a Portobello di Gallura – quella estiva, da turista – e si faceva accompagnare laggiù da un autista di Tempio, Giovanni Mureddu, aveva espresso quel desiderio anche a lui. Confidenza che si rivelò preziosa. Era il 1975. Mureddu lo avvisò che stavano vendendo un’intera vallata di 800 ettari… Finì che ne acquistammo una piccola parte, tre appezzamenti attigui, con un solo ‘stazzu’, come lo chiamano loro, un insediamento rurale fra rovi e muretti cadenti. Era abbandonato da decenni. Noi lo ricostruimmo secondo il nostro sogno più ambizioso: trasformammo davvero quell’angolo gallurese di Sardegna, l’Agnata, nel Paradiso”.

Cosa ne è adesso di quel paradiso?
“È rimasto il ristorante e un piccolo albergo, una decina di camere, una diversa dall’altra, come quando le avevamo concepite per abitarci o per ospitare gli amici. Ora lo hanno in gestione due persone giovani e motivate, lui si chiama Fabrizio lei Angelica, sono belle persone innamorate dell’Agnata pure loro. Spero poi che in futuro si riesca a riportare in questo scenario i concerti di Jazz in Time, come per qualche anno ci è riuscito di fare con l’aiuto di Paolo Fresu. Proprio a ridosso della casa c’è un prato che assomiglia ad un anfiteatro naturale, in grado di accogliere anche 2500, 3000 persone. Sono stati concerti memorabili, di appeal formidabile, con la tipica eleganza del jazz. Si alternavano momenti toccanti di silenzio e altri di entusiasmo rumoroso. Poi, finita la performance, gli spettatori si alzavano, se ne andavano e non trovavi un pezzo di carta per terra. Uno spettacolo a sé era la cornice di quei concerti. Io mi immaginavo Fabrizio che li seguiva dalla finestra dalla quale amava affacciarsi. L’Agnata è rimasta un’oasi verde, il paradiso immerso tra sughere e quercie”.

La Sardegna non evoca soltanto ricordi felici. Il sequestro è una cicatrice difficilmente rimarginabile. Eppure lei e Fabrizio riusciste a perdonare i rapitori.
“Da una parte c’è il valore del perdono in termini assoluti, dall’altra c’è la volontà di andare avanti. Non ci siamo mai costituiti parte civile, anche perché quelli che erano vicini a noi, i custodi, erano vittime a loro volta, gente costretta alla latitanza per reati minori, ricattati, ostaggi loro stessi. Tra di noi si era stabilita una certa comprensione, non dico amicizia, ma rispetto. Per loro, condannati alla pena più alta, 25 anni di carcere, provammo empatia. Ebbero le condanne più pesanti perché non vollero ammettere la loro colpevolezza: si vergognavano di quel che avevano fatto. Invece l’ideatore del sequestro, un toscano, l’uomo che si fece scoprire depositando in banca parte dei soldi pagati per il riscatto, scelse di fare il pentito e se la cavò con un paio d’anni. Poi scappò all’estero perché la giustizia lo ha perdonato, ma chissà se lo hanno perdonato i complici… MI torna in mente un episodio divertente. Uno dei nostri carcerieri, una persona discretamente colta, un giorno confessò a Fabrizio di essere un grande appassionato di Guccini. ‘E perché non avete preso lui?’, gli chiese Faber. ‘Non ero libero di farlo’, rispose”.

Faber in Sardegna è solo una parte del film in uscita.
“È un bellissimo documentario che racconta la Sardegna di Fabrizio. Cabiddu ha fatto un gran lavoro assieme al suo aiuto Edoardo Ferretti (figlio di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, ndr), agli amici e ai tanti collaboratori sardi che li hanno assistiti. E però è parso opportuno, per l’uscita nelle sale cinematografiche, abbinare quel doc a un altro dove Faber fosse il protagonista assoluto nella dimensione più amata dal pubblico, quella del concerto”.

Il titolo è L’ultimo concerto di Fabrizio De André. Con quel tour Faber era riuscito a concretizzare un altro sogno che coltivava da sempre: riunire nel lavoro l’intera famiglia. Infatti c’erano Cristiano e Luvi sul palco, e nella carovana del tour c’era sempre anche lei.
“Già, sono un po’ quelle cose che il destino vuole e disegna per te. Come se Fabrizio presagisse qualcosa – e in realtà già non stava bene – e avesse pensato: stavolta il tour me lo voglio godere insieme ai miei figli”.

Fu un tour trionfale. Faber poi era un perfezionista del palcoscenico, i suoi musicisti lo ricordano benevolmente come un autentico mastino: severo ma gratificante.
“Effettivamente pretendeva il massimo da chi lavorava con lui, come lo pretendeva da se stesso. Era esigente, sapeva che se tutto filava liscio, al meglio delle possibilità, faceva felici tutti: lui, i musicisti, gli spettatori. Fabrizio sapeva essere un grande amico, non solo dei suoi musicisti e non solo sul lavoro. Io stessa ho vissuto questa sensazione: la mia autostima è cresciuta grazie a lui, la verità è che Faber riusciva a tirare fuori la parte migliore di chiunque si trovasse a interagire con lui. Nell’arte e nella vita”.

Per molti De André non era un semplice cantautore. Era un maestro di pensiero. Nella sua ultima intervista a Repubblica, che ci concesse proprio alla vigilia del concerto al Brancaccio, si schermì: “Sono gaudente, inaffidabile e vigliacco come la maggior parte dei miei simili, titoli che non ritengo idonei a beatificazioni o statue equestri”. Gli hanno dedicato un’infinità di libri, dischi, premi, scuole, vie… Quasi presagiva il pericolo della beatificazione postuma.
“Sono d’accordo, come presidente della Fondazione De André mi trovo spesso nella difficile condizione di giudicare ogni iniziativa in suo nome e confesso che non è per niente facile limitare il percorso di un amore così travolgente. Se le cose sono fatte con rispetto, con amore appunto, non puoi proprio dire di no. Però c’è un limite a tutto: ci è toccato di bloccare l’uscita, già pronta con tanto di copertina, di un libro intitolato Cento inediti di Fabrizio De André la cui paternità il pubblico avrebbe poi attribuito a noi, alla Fondazione. L’abbiamo scoperto sul web dove girava da un po’. Questa davvero era un’operazione vergognosa”.

Lei è stata moglie, confidente, complice, psicologa e chissà quant’altro ancora, per De André. Qual è il ricordo del “suo” Faber che conserva con più dolcezza?
“I suoi ultimi mesi di vita. Probabilmente sentiva che non ce l’avrebbe fatta e quanto più si attaccava alla vita tanto più si faceva dolce e conciliante. Io mi ero completamente dedicata a lui e Fabrizio continuava a chiedermi scusa, quasi non si perdonasse di dovermi abbandonare e di darmi così tanto da fare. Le sue premure mi mettevano in imbarazzo. Questo era lui”.

Qual è l’eredità più importante che Faber ci ha lasciato?
“La consapevolezza di poter vivere la vita in un certo modo, credendo in se stessi, sapendo pure che la cultura paga. Nel corso degli anni tanti ragazzi mi hanno voluto esprimere la loro gratitudine dicendomi che l’averlo conosciuto è stata la loro fortuna. Vero è che per tanti Fabrizio è un maestro di pensiero, ultimamente ne abbiamo avuti pochi. È una fortuna che il Padreterno ce l’abbia donato. Ma non facciamo l’errore di considerarlo un dio, parliamo di un autore che nelle sue canzoni trattava Gesù Cristo come persona, mai come il figlio di Nostro Signore. Figuriamoci se avrebbe voluto essere beatificato lui! E però è una grande soddisfazione per me sentire adesso che anche il Papa esprime concetti tanto cari a Fabrizio, il riferimento agli emarginati, ai sofferenti, agli ultimi. È bello constatare che partendo da visioni tanto differenti, quella agnostica e l’altra religiosa, si possono condividere i medesimi sentimenti”.

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