(di ERNESTO ASSANTE, case find La Repubblica) Il suo nuovo disco è “Lorenzo 2015 CC”.”È come se tutto mi riguardasse, come se tutti i generi fossero i miei. Il numero delle canzoni non è il problema, ma la figata. È l’abbondanza… E poi insomma: perché fare una cosa sola quando se ne possono fare tante?”
Venerdì scorso è arrivato nelle radio un nuovo singolo, Gli immortali, il secondo tratto da Lorenzo 2015 CC, ultimo album di Jovanotti. Domani, su Jova Tv, il canale internet dell’artista, arriverà il video. Con un’inedita possibilità per il pubblico che, per circa dieci giorni, potrà montare in diretta un video personalizzato utilizzando un software, Interlude, già sperimentato da artisti come Bob Dylan e Coldplay, scegliendo di utilizzare le immagini di cinque versioni differenti del clip. “L’abbiamo girato a New York”, racconta Lorenzo Cherubini, quarantotto anni compiuti a settembre, “la mattina in cui la tempesta del secolo non c’è stata. Abbiamo fatto cinque piani sequenza con una New York incredibilmente vuota, senza dover spendere i milioni di dollari spesi da Will Smith per ottenere lo stesso effetto “.
Un video che non finisce mai di farsi, dunque, per un album che sembra non dover finire mai. Lorenzo 2015 CC è uno straordinario catalogo delle possibilità lungo trenta pezzi. E Jovanotti un vulcano che esplode, un fiume in piena. “Difficile chiudere i progetti per me lo è sempre stato. Tengo tutto aperto fino al limite, faccio tagli, correzioni, mi lascio la possibilità di cambiare scaletta, grafica, quando il disco è quasi chiuso rifaccio voci, suoni. Io, per come sono, un disco non lo chiuderei mai”.
E come si sente adesso che l’album è uscito?
“Un po’ perduto. La fase del fatto è un conto, la fase dell’uscito è un’altra. In mezzo c’è un periodo di sofferenza, perché tenere un disco nel cassetto non fa per me. Io appena un lavoro è finito lo pubblicherei immediatamente. E immagino che nel futuro sarà davvero così: canzoni pubblicate il giorno dopo che sono state scritte”.
Il disco, come concetto, non esiste più?
“Esiste come fatto industriale innanzitutto, la casa discografica ha bisogno di quella cosa lì, ragiona con quel tipo di filiera. Io ne ho ancora bisogno per una fatto generazionale, perché sono cresciuto con i dischi. Quindi entro ancora in studio per fare un disco, prevedo del tempo in cui dalla mattina alla sera sono lì e realizzo quello che ho progettato prima. Fare un disco è come fare un film, c’è una preparazione, una programmazione, una fase di scrittura e poi la realizzazione, che cambia ancora una volta tutto quando sei in studio. Io non faccio dischi sul computer, se facessi musica elettronica sarebbe diverso, potrei fare come quelli della trap, musica che si fa negli alberghi o nei pullman, ovunque, senza le jam session con i musicisti che faccio ancora io”.
Certo è che la varietà del nuovo album sembra rispecchiare anche la voglia di proporsi senza dover indicare, o scegliere, un unico Jovanotti.
“Forse, sì. Di certo ho scelto di togliermi di dosso l’ansia di essere per forza innovativo, come fossi Björk. E allora mi sono permesso di fare anche un pezzo funk, e una ballata completamente acustica. Perché non volevo fare il disco più innovativo del mondo ma quello in cui c’era anche una canzone con i fiati, e con la band che suona in diretta, e con i batteristi veri. Volevo tornare, anche, al suono della band che suona in studio. E poi insomma: perché fare una cosa sola quando se ne possono fare tante?”.
Ad esempio perché altrimenti si rischia di esagerare?
“No se l’esagerazione è fatta apposta. Mentre facevo il disco mi è venuta esattamente la voglia di esagerare. Forse anche perché tutto è stato esagerato nella mia vita ultimamente, i dolori come i piaceri. Il tour negli stadi? Esagerato. Enorme. Quindi non era proprio nella natura delle cose né del momento essere minimale. Ho scelto invece di rimanere in quella zona iper, in quel mondo esploso dentro il quale mi trovo da un po’ di anni e che alla fine mi è congeniale. Tentare di mettere in pratica questa idea mi è parsa la cosa più naturale del mondo vista da dentro, e la più folle se vista dal di fuori. È un approccio totale con le cose. È come se tutto mi riguardasse, come se tutti i generi fossero i miei. Il numero delle canzoni non è il problema, ma la figata. È l’abbondanza. E poi, parliamoci chiaro: per come si ascoltano i dischi oggi il mio non dura due ore ma tre o quattro minuti ogni volta…”.
Chi l’ha ascoltato per primo che reazione ha avuto? Quella che lei si aspettava?
“Mi ha molto motivato la platea di casa, come hanno reagito i miei, mia moglie Francesca, mia figlia Teresa, le ho sorprese mentre ascoltavano il disco e le vedevo contente. Giuro che non sapevano che io ero lì. Ho capito anche che, per la prima volta, in questo disco non pretendevo di avere il controllo totale dell’effetto che potevano avere le mie canzoni. Ho sempre avuto la maniacale fissazione della padronanza della materia, invece qui l’ho lasciata scorrere. Non vuol dire che io non ne sia, per così dire, il regista, ma ho fatto tutto con maggiore libertà. E credo si senta. Per come sono fatto la cosa che mi dà sicurezza e che davvero mi interessa è essere moderno, più ancora dell’essere apprezzato. Se dovessi scegliere tra l’essere considerato un innovatore e essere il numero uno, beh sceglierei la prima. Eppure in questo disco ci sono anche canzoni che hanno un suono quasi tradizionale”.
Lei lo sa, vero, che mettere insieme tutto quello che fa vuol dire di fatto creare un mestiere nuovo…?
“Sì, un mestiere nuovo, l’iper dj. E un modo di creare sequenze di senso attingendo dal caos. È una programmazione, una radio, una televisione, un giornale, internet, i social media, la camicia che indosso. E qualcosa che si sviluppa anche nel live, non una carrellata di canzoni ma un’opera, un unico grande pezzo che si muove libero e senza scaletta, in un tour che è anche un film, dentro uno spettacolo che è anche un racconto. Un’onda emotiva precisa: la musica, le performance, i video, le luci, lo spazio, i vestiti, il linguaggio, il tempo. È un mestiere bello, sì, nuovo, ma con tanti precedenti illustri”.
È, parafrasando il testo di una sua vecchia canzone, quello che ha sempre sognato da bambino?
“No, è quello che ho sempre fatto fin da bambino. Ero così già quando ho iniziato a fare il dj. Quando mettevo i dischi al ‘Veleno’, a Roma, i dj lavoravano al buio, il pubblico non era rivolto verso di loro come invece accade oggi. Io quella cosa lì l’ho beccata subito: c’erano due fari puntati sulla pista e io li ho girati sulla console, non avevo bisogno di luce ma di spettacolo, e accanto alla cassa piena di dischi ne avevo una piena di cappelli. Continuo su quella stessa strada”.
Sul suo biglietto da visita, per indicare che lavoro fa, cosa scriverebbe?
“Artista. Avverto tanti limiti nelle cose che faccio, ma li metto insieme e così diventano una forza. Quando ascolto uno come Thelonious Monk, come facevo ieri mattina, capisco che non ha bisogno di altro, che è tutto lì. Invece la mia roba rimane in giro, aperta, ci sono pezzi di canzoni che vagano, canzoni che diventano successi, canzoni che la gente lega alla propria vita. E concerti, immagini, parole, pensieri…”.
Vivere a Cortona, avere un rapporto stretto con il pubblico attraverso i social, sono un tentativo di compensare una vita straordinaria con qualche iniezione di normalità?
“Non mi ha mai interessato la normalità, non avrei fatto tutto quello che ho fatto. Quello che mi è accaduto non è stato un incidente di percorso, ho sempre avuto la sensazione che mi aspettasse questa cosa, non qualcosa di diverso. Da ragazzino, vedevo Discoring in televisione, ed era lì che volevo stare”.
Il suo, in qualche modo, è anche un disco politico, una dichiarazione d’intenti.
“Secondo me sì. Lo è per il messaggio, parola antica, che porta in scena e in giro. Impegno e godibilità. Una nuova declinazione per il vecchio slogan ‘balla e difendi’. Il limite di ‘balla e difendi’ era la mancanza del sorriso. Se si aggiunge quella parte lì non si toglie niente al messaggio. Anzi, diventa più efficace”.