Determinare i confini che separano il dialetto romano dall’italiano è difficile perché il romanesco si trova in una posizione di continuum rispetto all’italiano; non c’è una netta separazione tra lingua e dialetto. A parlare è il presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille, docente di Linguistica Italiana all’Università Roma Tre, riguardo alla questione sollevata dal rapper romano Piotta dopo che il suo album ‘Na notte infame’ è stato escluso dalla selezione del premio Tenco perché “i testi dell’opera non sono scritti e cantati per oltre il 50% in alcun dialetto o lingua minoritaria”. In questo caso – afferma D’Achille, che nella sua attività di ricerca ha studiato i dialetti e in particolare quello romano pubblicando tra l’altro il ‘Vocabolario del romanesco contemporaneo’ insieme a Claudio Giovanardi – “darei ragione a Piotta. Il dialetto romano, infatti, ha strutture molto simili all’italiano e ha subito una toscanizzazione nel Cinquecento”, sottolinea D’Achille, osservando che “Il Club Tenco ha utilizzato un criterio che, probabilmente, nel caso del romanesco doveva essere modificato”.
“Nel Belli – spiega il presidente della Crusca – l’elemento dialettale era dovuto alla grafia molto dialettaleggiante. In molte situazioni, ad esempio, la doppia ‘zeta’ come pronuncia era tipica anche dell’italiano. Bisogna vedere come vengono scritti i testi delle canzoni ma – ribadisce – darei ragione a Piotta, perché stabilire la percentuale del romanesco e dell’italiano è molto complicato”. Tanto più “perché molti elementi romani sono stati acquisiti dall’italiano. È difficile dire se una parola è romana perché anche l’italiano se ne è appropriato. Troviamo la parola ‘ammazza’ anche nei dizionari italiani, però non c’è dubbio che sia una parola originariamente locale. I confini tra l’italiano e il romano sono molto sottili perché c’è un continuo passaggio da uno all’altro. È soltanto nell’ambito dell’effettiva pronuncia che percepiamo la romanità”, conclude il linguista.