Mostra di Venezia: Dogman, la recensione del film di Luc Besson con Caleb Landry Jones

Mostra di Venezia: Dogman, la recensione del film di Luc Besson con Caleb Landry Jones

“Quando l’uomo è nei guai, Dio gli manda un cane.” Inizia con questa frase del poeta, scrittore, storico e politico francese. Alphonse de Lamartine, Dogman, il film di Luc Besson in concorso alla 80.ma Mostra del cinema di Venezia. È la prima volta che il regista francese si palesa al Lido. Ed è un debutto da applausi. E’ impossibile non empatizzare e innamorarsi di Douglas, il protagonista di una vicenda tragica e terrificante. Un ragazzo ferito nel corpo e nell’anima. Un uomo emarginato dalla società. Un dropout che attraverso l’amore per i cani, cerca di sopravvivere.

DOGMAN, LA TRAMA DEL FILM

Ispirato, purtroppo, alla storia vera di una famiglia francese che rinchiuse il proprio bambino all’età di cinque anni in una gabbia, Dogman è incentrato sulla via crucis di Douglas. Costretto a vivere rinchiuso insieme a un gruppo di cani, da un padre folle e crudele e da un fratello altrettanto feroce, il ragazzo si ritrova in seguito a un incidente, sempre provocato dal genitore con una lesione alla colonna vertebrale che lo rende impossibilitato a camminare. Con la sola compagnia dei suoi fedeli amici a quattro zampe, il ragazzo trova nel teatro di Shakespeare e poi in un locale dove si esibisce come drag queen una volta alla settimana, gli unici lampi di felicità in un mondo ostile. Ma Dio o chi per lui pare davvero perseguitare questo giovane in cerca di risposte (che non avrà mai ) alla propria sofferenza.

 CALEB LANDRY JONES, UN’INTERPRETAZIONE DA OSCAR

Dopo aver vinto il premio a Cannes per la miglior interpretazione maschile grazie al film Nitram diJustin Kurzel, Caleb Landry Jones, con la sua incredibile performance attoriale in Dogman, si propone come uno dei più probabili candidati alla Coppa Volpi e prenota già da ora una nomination all’Oscar. Eppure, bastava un nonnulla per finire nella caricatura, nella macchietta. Invece l’attore americano intriga, diverte e commuove. Vorresti abbracciarlo quando si definisce un uomo che può camminare solo per andare incontro alla morte (una definizione assai shakespeariana). E dispiace non poterlo ammirare dal vivo quando si esibisce nei panni di Edith Piaf cantando Hymne à l’amour o in qelli di Marlene Dietrich intonando la mitica Lili Marleen. La sua capacità di esprimere attraverso un gesto, uno sguardo, una parola la cognizione del dolore è potentissima. Una interpretazione che incanta i cinefili e financo i cinofili. Perché Luc Besson è talmente bravo da far recitare i cani appartenenti alle  razze e dalle stazze più diverse e assoluti coprotagonisti del film, come fossero consumati veterani della Comédie-Française.

DOGMAN, IL MONDO È UN PALCOSCENICO

Alla fine di Dogman (preparate i fazzoletti) è istintivo rammentarsi delle celebri parole di Williaam Shkespeare: “Il mondo intero è un palcoscenico. E tutti gli uomini e le donne semplicemente attori: hanno le loro uscite di scena e le loro entrate in scena. Ed  un uomo durante la sua esistenza recita molte parti.” Tant’è che quando il personaggio di Douglas si palesa per la prima volta in scena, travestito da donna, inchiodato su una sedia a rotelle e macchiato di sangue, pensi si tratti di un serial killer. E invece, Dogman ci insegna quanto sia importante andare oltre alle apparenze. E nonostante tutto la sofferenza che il protagonista deve affrontare nel corso della sua terribile esistenza comprendi quanto sia profonda la sua anima. E con il magone ti viene da accennare le strofe di un’altra straordinaria canzone della Piaf: “Non, rien de rien/Non, je ne regrette rien/Ni le bien qu’on m’a fait/Ni le mal/Tout ça m’est bien égal”.

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