Il teatro come veicolo per un profondo impegno politico, condiviso con l’amore di una vita, il Premio Nobel per la Letteratura Dario Fo. Il teatro come racconto della lotta per una società più giusta, più volte ostacolato – ma mai fermato – da censure e da un violento sequestro. Un mestiere, quello del teatro, che “non ho scelto io. Quando ho capito che non mi interessava fare l’attrice, ormai ero troppo vecchia per trovarmi un altro lavoro”, raccontava Franca Rame, attrice, drammaturga e politica scomparsa 10 anni fa, il 29 maggio del 2013.
Franca Rame nasce a Villastanza (Parabiago, Milano) il 18 luglio 1929 da una famiglia di attori con una tradizione teatrale che pare risalga al Seicento. Sale sul palco a soli 8 giorni di vita in una delle commedie allestite dalla famiglia, poi nel 1950 debutta in Ghe pensi mi di Marcello Marchesi.
In quegli anni Franca Rame conosce Dario Fo, che sposa nel 1954: dalla loro unione nasce nel ’55 il figlio Jacopo. È il 1951, in scena all’Odeon, la Compagnia Nava-Parenti con Sette giorni a Milano. Lui, 25 anni, alto e spilungone, strappa applausi con un monologo su Caino e Abele. Lei, 22 anni, è corteggiatissima da stuoli di ammiratori. “Non mi avvicinavo nemmeno – avrebbe confessato lui dopo – Mi dicevo: con tutti questi mosconi, neanche mi vede”.
Poi una sera, dietro le quinte, lo hanno raccontato più volte, è lei a prendere la situazione in mano: lo spinge contro un muro e lo bacia. “Meno male, ridevo dentro di me, che non mi ha detto: ‘Signorina come si permette? Si tolga dalla mia bocca!’. Poi ci siamo innamorati”, racconta lei anni dopo nel libro Non è tempo di nostalgia, frutto dell’intervista con Joseph Farrell.
Nasce così una coppia forte e solidale, in cui quella che poteva sembrare la figura più ingombrante, il Premio Nobel Dario Fo, riconosce sempre il debito che ha con Franca, l’unica autorizzata a fargli da terzo occhio, a criticarlo sino a metterlo in crisi (“In quei casi la odio, ma non riesco a non darle retta”) vista la grande sensibilità scenica di lei, che sul palcoscenico è praticamente nata.
Per Franca e Dario è il periodo delle commedie paradossali, dai titoli buffi, come Chi ruba un piede è fortunato in amore e Isabella, tre caravelle e un cacciaballe. Nel 1962 i due sbattono la porta di una Canzonissima di successo per la censura imposta alle loro performance dichiaratamente politiche. Un esilio dalla Rai che dura fino al 1977.
Nel frattempo l’Italia ha attraversato tanti drammi, fra cui gli Anni di Piombo, e la coppia Fo-Rame radicalizza la sua scelta più a sinistra del PCI. Sempre con Dario, Franca Rame esce dal circuito dell’Eti per fondare il collettivo teatrale “Nuova Scena” e poi “La Comune”, con cui interpreta in fabbriche e scuole occupate spettacoli di satira e di controinformazione politica. Di quel periodo sono Morte accidentale di un anarchico e Non si paga! Non si paga!. Durante gli spettacoli del loro collettivo teatrale si raccolgono fondi per i detenuti politici.
Negli anni Settanta Franca Rame partecipa al movimento femminista e nel ’73 viene sequestrata da un gruppo di estrema destra che la sottopone a sevizie e violenza sessuale: un’esperienza drammatica che diventa un capitolo della sua battaglia politico-sociale e nel 1981 uno spettacolo, Lo stupro. “Non sono mai riuscita a perdonare – dice anni dopo – Lo stupro procura una ferita insanabile nell’animo”.
Da quando aderisce al movimento femminista negli anni ’70, Franca Rame scrive testi e li recita da sola, specie quelli incentrati sulla denuncia del ruolo della donna. Parliamo di donne è il titolo di un suo fortunatissimo dittico, due atti unici, L’eroina (sulla droga) e La donna grassa, e il suo Tutta casa, letto e chiesa. Nel ’74, sempre insieme a Dario Fo, occupa e trasforma in teatro la Palazzina Liberty a Milano.
Una storia non facile quella di Franca, con momenti, come il riflusso anni ’80, in cui dice di essere stanca e voler lasciare: “Il mestiere del teatro non l’ho scelto io, sul palcoscenico mi ci hanno portato i miei genitori da quando avevo otto giorni per fare il figlio neonato di Genoveffa di Bramante. Recitare per me ha senso solo se mi permette di fare politica. Quando ho capito che non mi interessava fare l’attrice, ormai ero troppo vecchia per trovarmi un altro lavoro e ho continuato, nonostante quella del teatro sia una vita molto faticosa”.