Il figlio di George Martin, storico produttore dei Fab Four, ha remixato lo storico album del 1966. Un disco che segnò la definitiva evoluzione del quartetto di Liverpool e rappresenta una storica pietra miliare della musica contemporanea
E’ in vendita la versione remixata dell’album “Revolver” dei Beatles. A occuparsi della mastodontica operazione è stato Giles Martin, figlio del geniale produttore dei Beatles, George Martin utilizzando una innovativa tecnologia di separazione dell’audio guidata dall’Intelligenza Artificiale, appositamente creata dallo staff del regista Peter Jackson per la realizzazione del documentario “Get Back”. In pratica è stato possibile isolare i suoni di tutti gli strumenti e remixarli per ottenere – questo è quanto dice il giovane Martin – un suono più moderno e più adatto alle abitudini musicali dei giovani di questi tempi. La versione del cofanetto Deluxe è impreziosita da una ricca serie di contenuti extra cartacei (tra cui un libro di 100 pagine con introduzione di Paul McCartney) che da soli valgono il prezzo del biglietto.
Nella storia discografica dei Beatles esiste un punto che segna la netta separazione tra due epoche musicali. Questo punto si colloca esattamente nell’aprile del 1966 quando cioè i quattro di Liverpool cominciano le registrazioni dei brani che andranno a comporre “Revolver”, il disco della svolta. Da questo punto di vista la storia dei Beatles si può ben dividere in Avanti Revolver e Dopo Revolver.
A voler essere pignoli aria di rivoluzione tirava anche nel precedente lavoro dei quattro, “Rubber Soul”, uscito il 3 dicembre del 1965, ma era ancora una lieve brezza che leggiamo come l’inizio di un qualcosa con il senno di poi. A cosa fu dovuta questa rivoluzione è veramente facile dirlo: le prime esperienze con le droghe. Anche in questo caso esiste una data precisa, una prima volta, ed è il 28 di agosto del 1965 quando la sconosciuta marijuana entrò nelle vite dei Fab Four passando per la porta della suite all’ultimo piano del Delmonico Hotel su Park Avenue e 59th a New York, accompagnata per mano da Bob Dylan in visita privata a quei quattro fenomeni emergenti in tournée negli Usa. Il joint di sua maestà Dylan spingerà i 4 ad approfondire i loro studi sulla materia portandoli nella primavera del ’66 all’Lsd, sostanza allucinogena che aprirà definitivamente le loro menti, farà esplodere la loro creatività e renderà il mondo (musicale) un posto migliore.
Dicevamo che “Rubber Soul” mostra i primi segni del cambiamento in corso, impreziosito com’è da gemme autentiche come “Norwegian Wood”, “Nowhere Man”, “Girl” e “In My Life” (oltre alla sopravvalutatissima “Michelle”), ma il cambio di passo vero è tutto in “Revolver”. A partire dalla copertina, un’opera d’arte affidata a Klaus Voorman, vecchia conoscenza dei Beatles dai tempi di Amburgo, che dopo avere ascoltato con John Lennon una demo dell’album decise che per la copertina sarebbe servito qualcosa in più di una semplice fotografia. Si mise così a lavorare a un collage di foto in bianco e nero che si insinuano fitte e affastagliate tra le chiome fluenti di John Paul, George e Ringo disegnate da Voorman. Il risultato è – come si suol dire – iconico.
Venendo alla musica possiamo dire che “Revolver” nel suo complesso è un capolavoro. L’inizio dell’album è già una sorpresa: siamo in studio, ma non c’è ancora musica, bensì la voce (di Paul) che conta: “One, two, three, four, one, two…”. Rumori, un colpo di tosse… Una “sporcatura” che trasmette l’idea di trovarsi in una situazione “live”… in studio. Il conto ritmato precede l’attacco di “Taxman”, un pezzo al vetriolo di George che spara ad alzo zero contro il sistema di tassazione britannico che, in quegli anni, divorava la gran parte dei lauti introiti che i Beatles cominciavano ad avere per i loro successi. Su “Revolver” Harrison firmerà – per la prima volta – ben 3 brani, di nuovo un segno dei tempi che stanno cambiando: il “piccolo” George sta acquisendo una personalità musicale che lo porterà in pochi anni a comporre un capolavoro come “Something”.
Se “Taxman” è l’attacco acido e potente di “Revolver”, il secondo brano è uno dei più popolari. La palla passa a Paul che dà il meglio di sé raccontando la vita solitaria della povera Eleanor Rigby. La narrazione scorre su un tappeto musicale lirico dove la voce di Paul è contrappuntata da un doppio quartetto d’archi. La storia è tristissima e parla della solitudine di un’anziana zitella della quale – nella strofa finale – si celebra il funerale.
Terzo brano, terzo autore. Questa è la volta di John con la sua onirica “I’m Only Sleeping”. Molti leggono in quel sonno appiccicaticcio descritto da Lennon qualcosa di artificiale e quindi un riferimento implicito all’uso di droghe. John e Paul hanno sempre negato questa chiave di lettura, spiegando che in realtà la canzone fa proprio riferimento alla passione di Lennon per il dolce dormire. John tornerà sull’argomento (con meno ispirazione) un paio di anni dopo, sul doppio Bianco con “I’m so Tired”.
Procedendo in questo modo potremmo scorrere la tracklist di “Revolver” e spiegare perché ciascuna delle 14 tracce che lo compongono contribuisce a determinare il segno di un passaggio epocale per la musica contemporanea. Persino una canzoncina per bambini (così l’aveva immaginata Paul scrivendola e affidandola poi alla calda voce di Ringo) come “Yellow Submarine” è affatto innocua e banale. Ma c’è un brano che più d’ogni altro grida al mondo che il Messia della musica è arrivato e si tratta di “Tomorrow Never Knows”, ultima traccia come collocamento nel disco, ma la prima a essere registrata in studio.
John aveva cominciato un percorso di esplorazione interiore attraverso l’uso assiduo di Lsd, un potente allucinogeno molto in voga all’epoca. Alla guida di questa sua esplorazione chimica Lennon pose il manuale di Timothy Leary e Richard Alpert intitolato “The Psychedelic Experience” che utilizzava come primaria fonte di ispirazione “Il Llibro Tibetano dei Morti”, una raccolta di testi da sussurrare a chi in fin di vita – secondo le teorie sulla reincarnazione del buddismo tibetano – si prepara ad attraversare quello stato di passaggio tra una vita e l’altra denominato il Bardo. Partendo da qui Lennon compone la prima e probabilmente più esplicita canzone sull’uso dell’Lsd che sia mai stata scritta. Dal gennaio del 1966 Lennon cominciò ad assumere Lsd con regolarità e sotto l’effetto dell’acido ascoltava la propria voce registrata mentre leggeva la versione mediata da Leary/Alpert del “Libro Tibetano dei Morti”. Il verso iniziale di “Tomorrow Never Knows”: “Turn off your mind, relax and float downstream” è una esatta citazione del testo buddista.
Per John è una dichiarazione d’intenti: mettetevi comodi, da oggi nulla sarà più come prima. In realtà il titolo della canzone ha origini molto più terrene e classicamente beatlesiane: si tratta infatti di uno dei giochi di parole più o meno volontari prodotti a raffica da Ringo (come “A Hard Day’s Night”) che ha scatenato l’ilarità e l’interesse del resto della band. Ma questa è l’unica cosa classicamente beatlesiana del brano. Tutto il resto è frutto di una creatività espansa che ha spinto il gruppo e i suoi collaboratori a invenzioni e soluzioni tecniche mai provate prima di allora. L’obiettivo era mettere in musica una serie di sensazioni provate negli stati alterati di coscienza. E per farlo occorreva andare oltre i classici canoni della musica per come era stata intesa fino a quel momento. Lennon cominciò a fare richieste sulla propria voce. Si rivolse a George Martin chiedendo una soluzione tecnica che la facesse risultare simile a quella di un “Dalai Lama e di migliaia di monaci tibetani salmodianti sulla vetta di una montagna”. Martin e i tecnici scelsero di trattarla in due modi diversi: per il primo minuto circa la fecero raddoppiare da un nuovo “giocattolo” degli Abbey Road Studio, l’ADT (automatic double-tracking); per il resto della canzone invece la fecero processare da un altoparlante rotativo (il Leslie) di un organo Hammond. Il risultato è decisamente efficace (ma pare che Lennon non ne fosse rimasto del tutto soddisfatto e avrebbe preferito che la sua voce fosse affiancata da un vero coro di monaci tibetani, Paul invece dopo averlo ascoltato decretò che quella era la voce del Dalai Lennon).
La parte di batteria di Ringo è meravigliosamente ipnotica, ma anche qui si cercava qualcosa che andasse oltre l’esecuzione. Furono così adottati degli stratagemmi empirici per modificarne il sound: i tom tom furono accordati “lenti”, la gran cassa fu smontata per essere parzialmente riempita con un maglione di lana recuperato in studio. L’effetto finale – ulteriormente enfatizzato dall’uso abbondante dell’eco – entusiasmò Ringo e tutti quanti.
Per la prima volta in un brano di musica pop furono usati i tape loop, dei nastri incisi su un registratore e poi tagliati e giuntati ad anello in modo da riprodurre all’infinito il suono registrato. I Beatles ne usarono 5 in tutto, uno dei quali restituisce un effetto gabbiano/pellerossa che in realtà era la versione accelerata e distorta di una risata di Paul.
Il risultato finale è un brano che – contestualizzato all’epoca in cui è stato concepito e realizzato – sembra un oggetto proveniente da un altro pianeta. Non si era mai provato nulla di simile prima di allora. Tra l’altro gli studi di Abbey Road non erano un’avanguardia tecnologica, anzi. Negli Stati Uniti, a Los Angeles, esistevano strutture molto più avanzate che avrebbero potuto ottenere gli stessi risultati con molta meno fatica e improvvisazione. Come ricorda Ian MacDonald nel suo “The Beatles – l’opera completa”: “Il cantante e produttore americano Tommy James ricorda che interi studi di registrazione furono smontati e ricostruiti da capo, nella ricerca di un suono di batteria che i Beatles riuscivano a ottenere e i tecnici americani no: ‘Quello che loro facevano, qualsiasi cosa loro facessero, diventava lo stato dell’arte’”.
Se questo racconto vi ha minimamente coinvolti, a questo punto dovrebbe sorgervi spontanea una domanda: Ha senso mettere le mani su un’opera d’arte di questa portata per darle “un suono più moderno”?