Presentato l’unico film italiano in gara per l’Orso d’oro, tra il funerale di Pirandello e il racconto “Il chiodo”
“Leonora addio”, primo lavoro di Paolo Taviani senza il fratello Vittorio e unica opera italiana in concorso al Festival di Berlino, è un grande film sul tempo che passa, sulla morte e soprattutto sul ricordo di chi va via (proprio come nell’aria del “Trovatore” del titolo).
Un film-testamento comunque apparentemente sghembo e diviso esattamente in due parti: la prima, in bianco e nero, che racconta il destino incredibile delle ceneri di Luigi Pirandello e la seconda, Il chiodo, a colori, con al centro un fatto di sangue avvenuto a Brooklyn che ispirò l’ultimo racconto di Pirandello scritto prima di morire.
Incipit straordinario e teatrale con Pirandello sul letto di morte che dice meravigliato a se stesso: “Già finita la vita? Com’è possibile?”. Da questa disperata constatazione inizia il grottesco racconto delle ceneri del poeta, morto a Roma il 10 dicembre del 1936, il quale aveva dato indicazioni che, dopo la cremazione, la sua urna fosse portata in Sicilia e “murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.
Ma fu tutto più complicato di come immaginava. Le ceneri, messe in un vaso antico greco, rimasero poi nella colombaia del Verano di Roma per poi essere prelevate per riportate in Sicilia, dopo undici anni, da Gaspare Ambrosini (lo interpreta Fabrizio Ferracane), pirandellologo e futuro presidente della prima Corte Costituzionale. Una vera avventura la sua. L’aereo dell’Air Force non volle scaramanticamente portare i resti e così il viaggio fu in treno e tra mille disagi. Un viaggio che è l’occasione per Taviani di raccontare quell’Italia del dopoguerra piena di tutte le sue ferite attraverso materiale di repertorio e film del neorealismo che hanno raccontato il ventennio e la guerra.
Tra le immagini più crude che si vedono nel film, sicuramente la fucilazione del capo della polizia fascista, Pietro Caruso, e poi, sul fronte neorealismo, sequenze di film di Rossellini, Lizzani, De Sica e Visconti. E, a chiudere, l’ultimo racconto di Pirandello, modernissimo, quasi un corto di un giovane regista indipendente, scritto venti giorni prima di morire: “Il chiodo”, in cui il giovane Bastianeddu, strappato in Sicilia dalle braccia della madre e costretto a seguire il padre al di là dell’oceano, non riesce a sanare la ferita che lo spingerà a un gesto insensato. Quel chiodo non a caso caduto e raccolto dal ragazzino gli servirà per compiere un omicidio, ma l’oggetto della sua furia nasconde ancora l’amore e soprattutto la voglia di non dimenticare chi ha lasciato il mondo. E che nel film si parli di tempo e memoria è chiaro anche nel finale, suggellato da una suggestiva frase, sempre di Pirandello: “Bisogna che il tempo passi. Il mio l’ho avvolto e messo sotto il braccio”.