Giuseppe Tornatore rende omaggio a Ennio Morricone, amico e collaboratore, con il documentario Ennio, un ritratto tanto dell’uomo quanto dell’artista in cui la ribalta è tutta per il Maestro. Nel film il regista ripercorre con passione la storia del cinema italiano
Se davvero esiste un asteroide dedicato a Ennio Morricone, allora è cosa buona e giusta che il più grande compositore di colonne sonore per il cinema di tutti i tempi sia finalmente protagonista di un film. Artefice del tributo è l’amico di lunga data e collaboratore per 25 anni Giuseppe Tornatore. Con le sue due ore e mezzo di durata, il suo documentario Ennio è una full immersion nella vita e nella carriera del Maestro che ha reso speciali i western di Sergio Leone (guai chiamarli spaghetti western!) e a cui dobbiamo, ad esempio, quel “motivetto che ci piace tanto” che ha reso indimenticabile Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri.
Tornatore, che è riuscito a mostrare a Morricone solo la prima ora del doc, ha pian piano abbattuto il muro di rigore, diffidenza, timidezza e riservatezza dell’inventore della musica per il cinema. A un omaggio cinematografico al caro Ennio pensava da un bel po’, e quando ha cominciato a intervistare volti noti del cinema italiano e ha assemblato il materiale, non ha mai voluto nascondere l’intento didascalico della sua opera monstrum, che si rivolge anche a chi è giovanissimo e non può magnificare il neorealismo, la commedia all’italiana e il cinema politico degli anni Settanta perché non ne ha mai sentito parlare.
Per questa ragione, e per una modestia che da sempre gli appartiene, a dispetto della sua fama e della sua grandezza, Peppuccio ha rinunciato al piacere narcisistico di mettersi in scena come intervistatore o di lodare i suoi film attraverso l’intervistato. Il suo racconto, che segue le regole della musica prima di quelle della settima arte, e ha quindi la struttura e l’andamento di una partitura, è perciò molto classico, geometrico quasi. Ci sono parti di un’intervista a Morricone durata 11 ore, immagini di Ennio che dirige varie orchestre, testimonianze di registi come Quentin Tarantino e Roland Joffé, e di cantanti come Joan Baez e Bruce Springsteen, e poi materiale d’archivio che proviene dalla Rai e dal Luce. In più l’andamento è cronologico, perché nelle intenzioni del regista il documentario doveva essere come un monumentale romanzo, un libro nel quale il narratore non è onnisciente, l’aneddotica è sconosciuta ai più e del protagonista/eroe sono narrate prodezze e debolezze, pubblico e privato, conquiste e rinunce, vittorie e sconfitte.
Ma quale Morricone viene fuori da Ennio? L’uomo innanzitutto: un essere attento, taciturno, intelligente, modesto, enigmatico, abitudinario. Molti già lo conoscevano per queste caratteristiche, ma laddove il film di Giuseppe Tornatore diventa qualcosa di nuovo e appassionante è nella messa in risalto della pura genialità di Ennio Morricone, che scriveva note anche sulle tovaglie di carta dei ristoranti, che creava melodie nella sua testa, che traeva spunto dal verso di un animale o dal rumore di un barattolo o di ferraglia. Forse non importa sapere che Stanley Kubrick ha chiamato Ennio per Arancia Meccanica e che è stato il Maestro ad arrangiare “Se telefonando” e “Abbronzatissima”, quando lavorava per la RCA, ma è bellissimo e commovente scoprire il dramma che il figlio di un suonatore di tromba costretto a frequentare il conservatorio ha vissuto per quasi tutta la vita a causa dell’atteggiamento di rifiuto del suo maestro Goffredo Petrassi, che riteneva la composizione per il cinema uno svilimento della musica stessa. Proprio questo snobismo da parte dell’accademia ha portato Morricone a vivere la sua vita artistica come una rivalsa, come un antidoto alla paura di aver tradito i padri. La sua rivincita l’ha avuta Ennio, e parlandone in vecchiaia si commuove spesso, e noi con lui. Del resto, a inizio film, l’artista viene immortalato mentre fa la sua ginnastica mattutina, prima di entrare in uno studio dove il caos è ordine e meraviglia. Questa intimità non può non avvicinare lo spettatore.
Tornatore, però, non cercava la tenerezza nel suo ritratto, ma si è scontrato con la dolcezza e la malinconia di un uomo che ha amato per tutta la vita un’unica donna, depositaria dei suoi segreti e prima ascoltatrice sue colonne sonore. Non è riuscito a trattenere la linea sentimentale il regista, neppure quando ha deciso di intervistare Bernardo Bertolucci, che ci manca tanto, così come rimpiangiamo Gian Maria Volonté e ci rammarichiamo che Sergio Leone sia morto prematuramente. Perché è un manuale “accorato” di storia del cinema Ennio, che celebra Luciano Salce, Gillo Pontecorvo e molti altri. A volte Peppuccio si diverte, come quando sceglie di mettere una battuta di Verdone sul famoso flauto di Pan di C’era una volta in America o fa dire a Clint Eastwood che le musiche di Morricone lo hanno reso un attore decisamente più espressivo. Molto interessante nella prima metà, perché ci mostra un Ennio alle prese con le canzonette e perfino con lo sperimentale Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Ennio perde, nella seconda tranche, un po’ di verve, proprio per la natura un po’ scolastica del doc. Ma basta tornare a casa di Morricone, sentirlo cantare o vederlo suonare, per essere nuovamente trascinati in un vortice di emozioni, che sono poi quelle che ognuno di noi ha provato vedendo Mission, Il buono, il brutto e il cattivo e Nuovo Cinema Paradiso. Quando Ennio finisce, Tornatore ci lascia con un messaggio molto importante. Ci dice che la grandezza di Morricone consisteva anche nella sua inconsapevolezza di essere un genio, forse il solo grande genio capace di fondere musica e immagini in movimento in qualcosa di “altro”, una terza tigre, per dirla con Borges. Nessuno ci era riuscito prima, e chi è stato ragazzo o adulto nel 1956 lo ha capito subito dall’invenzione del carillon di Indio di Per qualche dollaro in più.
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