In occasione dell’uscita di Lasciarsi un giorno a Roma, il suo ultimo film disponibile su Sky dal 1° gennaio, l’attore parla della difficoltà degli esordi, del sogno di fare l’insegnante e del valore della lentezza
Chi considera la lentezza un difetto difficilmente andrà d’accordo con Edoardo Leo, un professionista che, per riuscire bene nel suo lavoro e in qualsiasi altra disciplina, ha bisogno di una cosa semplicissima: prendersi il tempo per farle. Gli succede in cucina, con un libro che legge e, soprattutto, con i film che scrive. Dall’ultimo che ha diretto, Che vuoi che sia, commedia agrodolce su cosa una coppia sarebbe disposta a sacrificare per portarsi a casa un’importante somma di denaro, sono passati cinque anni. Nel mentre, Leo ha scritto, cancellato e riscritto fino ad arrivare a Lasciarsi un giorno a Roma, il suo nuovo film disponibile dal 1° gennaio su Sky Cinema, un viaggio romantico che racconta la storia di un uomo, Tommaso, interpretato dallo stesso Leo, che gestisce in forma anonima la posta del cuore di un settimanale fino a quando ricevere una lettera dalla sua compagna (la bravissima Marta Nieto) che, ignara di trovare la sua dolce metà dall’altra parte, chiede un consiglio su come lasciarlo.
«È un film molto diverso da quelli che ho fatto prima», racconta Leo al telefono che, in effetti, in questo lavoro, che ha iniziato a girare a marzo del 2020 prima che la produzione si fermasse a causa del lockdown e riprendesse l’estate successiva, ha deciso di mettere sul tavolo una tavolozza di sentimenti che hanno un’unica peculiarità comune: l’incomunicabilità tra persone che si conoscono da una vita ma che, per una ragione o per l’altra, hanno deciso che con l’altro fosse tutto già detto e già scritto. «La pausa imposta dal lockdown mi è servita per ragionare, pensare, riscrivere. Non è andato buttato quel tempo, anzi è stato utile», specifica Edoardo che, nel 2022, ci regalerà il suo il suo sesto film, Non sono quello che sono, che, a proposito della famosa lentezza, ha iniziato a scrivere quindici anni prima.
Cosa ha riscritto di Lasciarsi un giorno a Roma durante il lockdown?
«In un film in cui si parla di coppie che faticano a comunicare e a dirsi la verità, il lockdown mi ha permesso di approfondire il fatto che due persone non riuscissero a parlare nonostante la convivenza forzata. Prima era il non avere il tempo di parlarsi, dopo è diventato qualcos’altro».
La sua convivenza forzata durate il lockdown com’è stata?
«Non amo parlare della mia vita privata, ma posso dirle che in ognuno di questi personaggi c’è un pezzetto di me e di quello che è successo agli amici, ai colleghi e a tutti quelli della mia generazione».
Nel film lei risponde ai consigli d’amore: nella vita di tutti i giorni, glieli chiedono?
«Non tantissimo. Se qualcuno vuole sapere qualcosa da me è più utile che veda un mio film, anche perché non credo di essere un ottimo soggetto per tenere una posta del cuore».
Io la vedrei bene, invece.
«Il problema è che sono molto lento a scrivere: la gestazione dei miei film è ruminante, e mi aiuta il fatto di non scrivere da solo, ma di coinvolgere anche gli attori nelle ultime stesure del film. In una posta del cuore c’è un solo uomo al comando che risponde a una velocità incredibile; nelle mie sceneggiature rielaboro io un processo collettivo».
Si sente più protetto a lavorare in gruppo?
«Non lo faccio coscientemente: ho bisogno del confronto, non è solo questione di protezione. Marco Bonini, che è mio amico da 40 anni e che ha scritto insieme a me tutti i miei film, è fondamentale: mi conosce bene, sa i miei punti deboli. Confrontarmi con lui è edificante».
Com’è autodirgersi?
«Mi piacerebbe fare un film solo di regia ma, la verità, è che negli anni ho affinato un modo di stare sul set e una squadra che lavora in questa direzione. Sono un po’ rompiscatole quando lavoro, ma credo fortemente nelle competenze degli altri».
Perché rompiscatole?
«Sulla parte tecnica faccio sempre delle lunghe dissertazioni con il direttore della fotografia sugli obiettivi da scegliere e il tipo di macchina da presa da usare. Non è questione di pignoleria, ma attenzione al dettaglio: facciamo un lavoro meraviglioso che detesterei fare in maniera pressapochista».
Nel film, a un certo punto, scopre che la sua compagna a letto le dà un «6 – -». Ha mai ricevuto questo voto nella sua vita?
«A scuola di sicuro. Probabilmente lo avrò preso sia sentimentalmente e, forse, anche a letto. Prendersi in giro è abbastanza utile: se potessimo chiedere ai nostri compagni di farci raccontare qualcosa di come siamo, sono sicuro che troveremmo senz’altro un voto non sufficiente».
Lei, a un certo punto, i voti ha pensato di darli, visto che voleva diventare insegnante.
«Ho fatto Lettere con indirizzo classico perché, se non fossi riuscito nel mestiere che faccio, mi sarebbe piaciuto insegnare. Faccio uno spettacolo da tanti anni in cui tengo una lezione su come si raccontano le storie».
Da bambino sognava di diventare un attore?
«Neanche minimamente. Non vengo da una famiglia di artisti, avevo dei sogni più medi: all’inizio ho provato a fare il calciatore, ma non ci sono riuscito. Il piano b era, appunto, fare l’insegnante. A scuola ne ho avuto uno illuminante che mi ha passato la passione per la letteratura, le poesi, e l’arte perchè la vedevo nei suoi occhi mentre insegnava. Quella figura mi ha fatto pensare che, quando c’è un grande entusiasmo, riesci a comunicarlo anche agli altri».
Invece, alla fine, ha optato per il piano c. Quando è arrivato?
«Tardi, a 22 anni. È nato tutto per caso: quando ho capito che mi piaceva, ho deciso di mettermi a studiare. La prima parte della carriera non è stata così fortunata e felice: faccio questo mestiere da quasi 30 anni, ma i primi anni sono stati molto complicati e difficili, anche se prendo tutto quello che è stato».
Non crede che le esperienze negative aiutino a crescere più di quelle positive?
«Nel mio caso è stato così. La sofferenza di non fare certe cose mi ha costretto a una dedizione e a una disciplina ancora maggiori. Quando vedevo che i film che volevo fare come attore non me li offrivano, me li sono scritti. La prima regia l’ho fatta quasi per filtrazione».
Ed è andata benissimo.
«Diciotto anni dopo ha incassato pochissimo, ma ha vinto talmente tanti festival che ha acceso una luce sul mio lavoro».
Che ruoli non le davano gli altri registi?
«Mi sentivo sottovalutato, non venivo usato nella commedia perché non avevo il fisico del caratterista, ma in fondo sentivo di avere una verve divertente. Così ho deciso di darmela da solo: da quando ho scritto il film a quando l’ho realizzato, ci ho messo 10 anni».
Da cosa dipende una gestazione così lunga?
«Nel primo film, dal fatto che non trovavo un produttore. Negli ultimi, mi prendo il tempo per pensare, ragionare, aggiungere. E poi, uan volta trovato il cast, continuo: è il mio metodo, sono i miei tempi. Non riesco a fare un film all’anno».
In una delle ultime scene di Lasciarsi un giorno a Roma, Tommaso dice che gli fa schifo guidare e che gli piacciono i finali tristi.
«È un modo per dire che, se devi cambiare per qualcuno, rischi di non riconoscerti più: puoi andare bene all’altro, ma non vai più bene a te stesso».
Quindi non le piacciono i finali tristi?
«Mi piacicono i finali giusti. L’happy end non sempre mi ha gratificato come spettatore e come lettore. A volte qualche finale più duro, anche se mi ha fatto male, mi ha colpito di più nel mio immaginario».
Sembra molto cerebrale: cosa fa per staccare?
«Pensare al cinema e scriverne è una cosa dalla quale non sento la necessità di staccare: è un processo che ho sempre in testa anche quando vado in vacanza perché sono riuscito a trasformare la mia passione nel mio lavoro. Per il resto, vado a giocare a pallone con gli amici di quando ero ragazzino e cerco di scoprire qualche città nuova quando posso. E cucino. Cucinare mi rilassa».
Il suo piatto forte?
«So fare bene le pappardelle al cinghiale e lo spezzatino di cinghiale. Ma c’è un motivo: per lavorare quella carne ci vuole molto tempo: devi metterla al bagno nel vino il giorno prima. È un processo lentissimo che mi piace un sacco. La lentezza è una qualità, non un difetto per me».
Forse c’entra che oggi sia tutto troppo veloce?
«Ora che ci penso, è una cosa che mi capita anche con i social: non credo di aver mai fatto una Storia in diretta, ma sempre in differita. Anche per una foto, ci penso molto se vada la pena pubblicarla o meno perché mi chiedo se possa essere interessante per gli altri. È sempre bene pensarci un po’ di più».
C’è mai un momento in cui si fida dell’istinto?
«Sì, ma non significa che non sia una cosa mediata. Se leggo una sceneggiatura che mi piace, mi fido dell’istinto, ma ho bisogno di leggerla e rileggerla per capire se sia un progetto interessante da fare. L’istinto non è necessariamente immediato e violento, ma pensato».
A proposito di lentezza, il tempo che passa come lo vive?
«Non ho tempo di pensarci. Un po’ di anni fa succedeva, ma ora credo di avere un rapporto equilibrato. Non voglio fare resoconti della mia vita, guardarmi indietro e capire se ho fatto bene o male: preferisco godermi il viaggio».
Quindi il fatto che nel 2022 compirà 50 anni non la turba?
«Francamente sto molto meglio adesso di quando ne avevo 40. Non sono legato alle feste e ai compleanni, non mi spaventa dire che l’anno prossimo faccio 50 anni. Se nei film scrivo certe cose è normale che mi confronti con i miei demoni e i miei disequilibri, ma non sono mai legati all’età anagrafica».
Se la può consolare, non li dimostra.
«E non mi tingo. Lo scriva, ci tengo».
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