Ha 70 anni, lavora da 60, ne dimostra 50. Massimo Ranieri, un viso che racconta ogni istante della sua vita, occhi e rughe che parlano del suo dolore, della sua gioia. Mancava un libro. L’ha scritto: «Tutti i sogni ancora in volo», 200 pagine che si leggono tutto d’un fiato. Sembra un film la sua vita. Da piccolo scugnizzo napoletano doc del quartiere Santa Lucia, intraprendente, sfacciato, povero in canna, a grande attore, cantante, performer, acclamato in tutto il mondo. Feste di piazza, cinema, teatro, commedie, drammi, regia, musical, Festival di Sanremo, Canzonissima, televisione. Tutto di corsa, senza mai fermarsi. Passione, talento puro, determinazione: ogni traguardo l’ha raggiunto. Ma ha pagato un prezzo molto alto: «perdere l’amore». E non è un gioco di parole. La sua canzone simbolo è la sintesi del suo «buco nero». L’arte veniva prima.
«Ogni volta che mi sono trovato di fronte all’evidenza che per costruire una famiglia avrei dovuto cedere qualcosa sul piano professionale, rinunciare a un evento il giorno di Natale, mettere in pausa una tournée per concedermi una vacanza, il mio istinto mi ha spinto a confermare gli impegni e implorare la mia donna di rimandare i nostri piani . Illudendomi che ci fosse ancora tempo (…). E così che le ho perse , le donne che ho amato. Con tantissimo dolore e nessuna acredine : che avessero ragione loro l’ho sempre saputo». Pagine impregnate di amarezza e onestà intellettuale.
Perché Ranieri (vero nome Giovanni Calone) ha sentito il bisogno di scrivere un libro?
«Avevo voglia di far sapere al mio pubblico — quel pubblico che mi dà amore, stima, considerazione, sempre, ogni sera, ogni spettacolo — qual è stato il mio percorso. Le mie cadute, salite e risalite».
Ripercorrere la propria vita è come sottoporsi a una lunga seduta di psicoanalisi. E’ stato così anche per lei?
«Sì, riaffiorano dolori che pensiamo di aver eliminato. E invece sono dentro. Il cuore, la mente tengono tutto dentro. In certi casi mi sono dovuto fermare con il magone. Lasciavo per un po’ la scrittura e poi, dopo aver riassorbito la botta, riprendevo a scrivere».
Tanta sofferenza nella sua vita?
«Non mi vergogno a dire che sono pieno di ferite. Ma certo ho vissuto anche momenti meravigliosi. E’ che i ricordi belli non tornano e quelli brutti ti fanno stare male. Il dolore sta lì acquattato e quando hai un momento di debolezza, eccolo riapparire. Penso a quando ho perso i miei genitori, i pilastri della vita che non si possono sostituire, o alla morte di mia sorella».
Un dolore forte, intenso, che pensava sopìto?
«Il primo grande dolore per amore. Avevo vent’anni (titolo di uno dei suoi brani più famosi, che vinse “Canzonissima”, nonché la canzone che lo stesso Massimo ama di più, perché è cucita su di lui, ndr). Una sofferenza enorme. Scappai da Roma pensando di scappare dal tormento. Andai a Parigi. Pensai: lì cambio vita, ricomincio da capo. E invece no. Il corpo era a Parigi, la mente e il cuore erano là, a Roma, con il mio dolore».
Mamma e papà?
«Mamma era una donna forte, pragmatica che per me voleva un lavoro stabile, e uno stipendio fisso a fine mese. Per lei il canto era solo un hobby. Papà invece è stato il mio primo ammiratore. Lui Diceva: “Gianni addà cantà”. Quando ho guadagnato le mie prime 200mila lire le ha prese in mano ed è quasi svenuto».
Nel libro racconta che ancora oggi il Natale non riesce a viverlo bene. Troppi ricordi tristi le affollano la mente
«Da bambino non ho mai ricevuto un regalo, mai avuta nemmeno una caramella. Dovevamo chiedere i soldi in prestito allo zio per il pranzo di Natale. E certe sensazioni non te le scrolli mai di dosso».
Dopo tanta povertà, ora i soldi non sono più un problema. Come vive il denaro?
«Mi interessa relativamente. I soldi hanno senso solo se possono aiutare qualcuno. Ho sistemato i familiari, dato aiuto ad amici in difficoltà».
Bolognini ha scelto lei per Metello «perché ha una faccia da proletario»; Anna Magnani adorava il suo viso; a Patroni Griffi bastò incrociare il suo sguardo per volerla follemente a teatro; Strehler diceva: «dietro la faccia da bravo ragazzo che canta “Rose rosse” anche tu sei un figlio di pu… come tutti quanti noi che facciamo teatro. Io lo so e voglio farlo sapere anche al pubblico». Il suo viso ha contato molto dunque nella sua carriera...
«Ho una faccia un po’ eduardiana, una faccia dura, di un self made boy . Ma i grandi intellettuali avvertivano che dietro questa faccia dura, c’era un grande amore per l’arte, c’era entusiasmo, gentilezza. Capivano che avevo una grande volontà di riuscire, rubando sprazzi a tutti gli artisti. L’artista dev’essere un ladro, deve prendere qualcosa da tutti».
«Giorgio Strehler ce l’ho dentro. La mia anima è rimasta con lui»: un legame fortissimo tra lei e il regista.
«Sì, un legame che non si è mai spezzato. Ancora oggi quando metto su uno spettacolo, risento la sua voce forte: “Questo fa schifo, cambialo”. E ha ragione, come allora..»
Lei è un cantante amatissimo, il suo «Perdere l’amore» (vincitore a Sanremo ‘88) è un culto, le sue performance televisive hanno grande successo, ma la sua passione resta il teatro. Tra le pagine è palpabile l’adorazione per il palco, il sipario. Sembrano la sua casa, la sua stessa vita. Perché?
«Perché Napoli è nu’ palcoscenico a cielo apert’, e questo mi è rimasto dentro, nel bene e nel male. Come diceva il grande Pino Daniele, a Napoli c’è “il popolo che cammina sotto ‘o muro“. Io, a casa mia, ho messo il parquet, perché devo avere le tavole di legno sotto i piedi».
In nome di tutto questo ha perso l’amore: «La verità è che per amore ho patito tutta la vita, perche l’amore non sono mai riuscito a trattenerlo, a dargli la forma che avrei sperato. Mi è sempre scivolato dalle mani. Non mi sono mai sposato perché non sono stato in grado di dare a nessuna la stabilità di cui la vita familiare avrebbe bisogno per germogliare». Dunque nessun matrimonio, nessun figlio (a parte «l’adorabile Cristiana» riconosciuta tardi, con la sofferenza di «non aver colto quel dono quando ero troppo giovane e di essermi perso la magia della sua infanzia»). Tutto ciò la rattrista?
«Ho scelto io la mia vita. Per rispetto e onestà sento che non posso dare tutto a una famiglia, come do tutto al lavoro. Il giorno che smetto di cantare, mi dedicherò alla mia famiglia, ma finché non potrò farlo, non voglio infelicitare nessuno. Già mi sono infelicitato io; ho infelicitato le donne che hanno sofferto per causa mia. Perchè dovrei infelicitare altre donne o i figli? Il padre deve fare il padre: o è, o non è. Che dovrebbe dirgli la mamma: “Papà dov’è? E’ ancora fuori tesoro, non torna nemmeno stasera”».
Non esclude però che arrivi il giorno in cui potrebbe farsi una famiglia…
«E perché mai? Quando girai Les Parisiens, a volte la piccola Stella, nata da Claude Lelouche e Alessandra Martines, protagonista del film insieme a me, veniva a trovare i genitori sul set. Aveva cinque o sei anni e ricordo Lelouch, quasi settantenne, sollevarla per mostrarle il set. Sarei un padre ideale dato che ho il fuso orario dell’artista e prima delle tre di notte non mi addormento. Sarebbe bello scoprire che questo non è destinato a rimanere un rimpianto, ma a diventare un sogno che si realizza».
Oggi invece la molla che la fa svegliare la mattina è lo spettacolo?
«Sì, con il lockdown ho sofferto tantissimo. Sono felice di aver ripreso ieri la mia tournée, «Sogno e son desto», proprio ad Alba dove nel marzo 2020, tutto si fermò per me. Stavo andando nella cittadina piemontese per lo show, quando ci hanno avvisato che c’era un caso di Covid e non si poteva andare in scena. Abbiamo girato la macchina e siamo tornati a Roma. Da quel giorno sono stato chiuso in casa per 70 giorni di fila. E’ stupendo ora tornare sul palco: stasera sarò a Bologna, il 4 dicembre a Varese, il 5 a Milano, il 6 a Bergamo e poi ancora tante date e tante città, su e giù per l’Italia»
Ne parla davvero come un innamorato.
«Perché la mia famiglia è l’enorme mole di persone che mi seguono da anni. Mi coprono d’amore. E io lo sento nel profondo del cuore. Certo poi la sera faccio i conti con me stesso quando sono solo in albergo»
E quando vuole sentirsi meno solo che fa?
«Corro a Napoli perché lì c’è la mia famiglia d’origine, anche se siamo rimasti in pochi. Ma tra noi c’è ancora un grande amore, grazie a mia mamma che ha tenuto in piedi tutta la famiglia».
Al culmine del successo decise di lasciare la musica per il teatro. Poi un giorno, per caso, un ragazzo le fece sentire dei testi che aveva scritto tra cui «Perdere l’amore». Sentendolo, decise che avrebbe ripreso a cantare e che lo avrebbe pure portato a Sanremo.
«Una serie di coincidenze fortunate. Quell’anno secondo me il più forte a Sanremo era Fausto Leali con “Mi manchi” e invece vinsi io che non cantavo più da 16 anni. Non ci volevo credere, ero già andato al ristorante prima che finisse la serata. Quanto quella canzone e quella vittoria avrebbero cambiato il corso della mia vita l’ho capito solo dopo anni. “Perdere l’amore” è un incantesimo. Ogni volta che la canto, bastano le prime cinque note a scatenare l’entusiasmo del pubblico perché tutti ci si riconoscono. Chi non ha sofferto per amore? Chi non ha perso una donna o un uomo e non ha avuto voglia di morire? Ognuno di noi ha bisogno d’amore, per tutta la vita anche con i fili d’argento tra i capelli. Forse soprattutto allora. ».
Ha rimpianti?
«Non ne ho. Ma sogni ancora in volo, sì».
Maria Volpe, corriere.it