«Ci si guarda indietro… E siamo già vecchi». L’ironia è il codice di rappresentazione con cui Aldo Giovanni e Giacomo hanno attraversato 30 di storia del teatro, del cinema e della televisione. «Trent’anni che sono volati, non ci si crede a quello che abbiamo fatto». Eppure gli inizi — come quasi sempre succede agli inizi — non furono un garage americano e una strada in discesa. Giacomo: «Agli esordi ci avevano bocciato alcuni personaggi, fanno schifo, dicevano. Erano i bulgari». Ovvero uno strepitoso successo. «Anche per Tafazzi la stessa cosa, ci dissero di andare a farlo all’oratorio. Invece lì le follie erano ben viste, la tv all’epoca era bellissima». Lì, ovvero Mai dire gol. Aldo: «I tre della Gialappa cercavano sempre di stimolarci, anche loro un trio e una grande affinità che ci legava. In quanti se arrivi e dici: voglio fare il geco attaccato al muro, ti rispondono: sì dai organizziamo».
Gli inizi della carriera erano non solo difficili ma spesso assurdi, involontariamente comici: «Sul set del nostro primo film eravamo ancora un po’ sfigati. Aldo faceva Dracula e doveva lanciarsi da una finestra: è arrivato uno stuntman anzianotto, alla fine eravamo noi a aiutare lui…». Tra i tanti spettacoli cosa vi rappresenta di più? Giovanni: «Il teatro più di cinema e tv, per il suo meccanismo immediato con il pubblico, quindi I corti, Tel chi el telùn: sono i progetti che mi hanno esaltato di più. Il cinema è diverso, alla fine sei quasi condizionato dal successo che ha decretato il pubblico. La tv invece è stata il palco delle grandi follie. A Mai dire gol dovevamo lavorare in pochi minuti, eravamo costretti a inventare cose esaltanti. Lì abbiamo vissuto i momenti più euforici e folli, divertenti». Eppure, anche lì, mica facile: «Appena siamo entrati a Mai dire gol hanno cercato di cacciarci. La Gialappa ci voleva, ma qualcun altro — non ci ricordiamo proprio chi fosse… — remava contro. Ci hanno tenuto per qualche ora in un limbo di attesa. I nervi. Eravamo al bar di Milano 2 e dovevamo entrare in studio, ma continuavano a rimandare il nostro ingresso, dalle 2 del pomeriggio, per 5 ore. Abbiamo resistito. E questa è una delle fortune di essere in tre, perché magari uno da solo se ne sarebbe andato». Le decisioni a maggioranza, ma non solo. Ancora Giovanni: «Il meccanismo era doppio: o si decideva a maggioranza o uno era così bravo da convincere gli altri a farsi seguire. C’è anche il proverbio: chi fa da sé fa per tre. Ecco, non è il nostro caso, per noi è il contrario».
Sempre in sintonia, qualche lite composta sempre all’interno. Aldo: «Siamo sempre stati una squadra ben rodata, tra di noi, e poi con Paolo Guerra (il loro storico produttore) e Massimo Venier (il regista). Ci si fidava perché avevamo obiettivi comuni. Piccoli screzi ci sono sempre stati. Anche grossi — ma non ci ricordiamo nemmeno questi». Giacomo: «In realtà abbiamo rischiato la rottura soprattutto all’inizio, epoca di grandi litigate: io una volta per un tappetino di scena li ho mandati a quel paese pesantemente. Ma dopo 5 minuti mi son detto: ma dove cazzo vado senza quei due lì?». Giovanni: «La verità è che abbiamo una sensibilità artistica molto simile, questo è stato il collante che ci ha tenuto insieme: se a uno piace il non sense e un altro preferisce la comicità fisica non c’è possibilità, si rompe subito il meccanismo. Invece noi abbiamo tante affinità. E poi siamo amici, ci piace stare insieme». Giacomo: «I litigi ci sono dappertutto, nell’amore, sul lavoro. E anche noi non ci siamo sottratti alla normalità».
Per festeggiare il 30° anniversario della loro carriera il trio ha scelto il canale Nove: due serate speciali inedite (Abbiamo fatto 30…, in onda in prime time il 21 e il 28 novembre; e in anteprima su Discovery+ dal 6 novembre) insieme ad Arturo Brachetti (nel ruolo di conduttore-intervistatore) con aneddoti, gag, improvvisazioni, segreti e retroscena di 30 anni di televisione, cinema e teatro.
Qual è lo stato di salute della comicità oggi? «In televisione c’è sicuramente meno voglia di rischiare. Zelig era una palestra, ma oggi locali così non interessano più a nessuno. C’è un periodo per tutto. Al Rinascimento segue sempre una fase buia. Un tempo c’era più fermento, in teatro, in tv. Più voglia di essere liberi e visionari. Se noi fossimo nati adesso probabilmente non saremmo emersi…». Giovanni: «Io avrei fatto il giardiniere». Aldo: «Io l’aiutante del giardiniere». Giacomo: «E io avrei continuato a lavorare in ospedale…. Senza fare il vecchio e il passatista, non è una bestemmia dire che la modernità aggiunge delle cose ma ne fa perdere altre. Negli anni 80 per vedere uno spettacolo dovevi uscire, far fatica, prendere la macchina, investire soldi e tempo. Adesso vedi tutto da casa, sul computer, sullo smartphone, ma perdi un pezzo. Credo che oggi il terreno sia un po’arido; credo che manchi una disciplina di fatica, di sperimentazione rispetto ai meme — che pure fanno ridere — di oggi. I comici ci sono, sono anche molto bravi, ma non c’è l’opportunità di fare palestra. Prima avevi bisogno del pubblico per esprimerti, adesso non ne hai più necessità. Noi avevamo un rapporto forte con il pubblico, oggi c’è un rapporto forte con se stessi. È tutto profondamente diverso: il contatto con il pubblico ti porta a cambiare in corsa, aggiustare, provare, sbagliare: e così rimani vivo. Con Internet questa interazione non c’è, c’è molta freddezza, direi quasi disumanizzazione. Noi costruivamo lo spettacolo anche seguendo le reazioni del pubblico; adesso il like è troppo freddo, ti informa ed emoziona poco, è un sì o no; il like non dialoga con te. Negli anni 80 c’erano locali dove il pubblico si divertiva a insultarti, a tirarti le monetine. Anche quello era formativo».
Fondamentali le monetine. Senza il «grano» di Giovanni questa storia forse non sarebbe stata scritta: «Se non avesse investito lui 5 milioni di lire nel nostro progetto non saremmo mai esistiti. Cinque milioni, era tutto cio che possedeva». Giovanni: «Sono stato lungimirante. Questo mi permette di avere ancora il 34% dei guadagni…».
Renato Franco, corriere.it