Will Smith e Mike Bongiorno, la banda di attori e amici de «L’Ultimo bacio» e la lezione di baseball di Tom Cruise, Minoli e Monicelli, i David mancati e l’uso dei social network, la rottura con il fratello Silvio e l’amicizia fraterna con Domenico Procacci, la prima serie tv e i film mai realizzati, le puntate di «Un posto al sole» e il festival di Sanremo. Gabriele Muccino si racconta a cuore aperto nell’autobiografia, «La vita addosso», realizzata con Gabriele Niola (Utet editore, 17 euro, 307 pagine). «Una lunga cavalcata di 24 anni, metà in Italia e metà in America, a cavallo di due culture molto diverse. Ho aperto ogni file della memoria in modo onesto».
A cominciare dalla tv.
«Ci sono arrivato grazie a mio cugino, che lavorava a Mixer. Mostrò a Minoli i miei corti e me ne commissionò tre: sull’innamoramento, sulla gelosia e sulla separazione. Poi per cinque mesi ho fatto Un posto al sole. La tv è stata una palestra, l’obiettivo è sempre stato il cinema».
«Ecco fatto», poi «Come te nessuno mai», il successo con «L’Ultimo bacio».
«Fino a Come te nessuno mai ero visto ancora giovane promessa, guardato con attenzione e una sorta di affetto da Monicelli, Scola e Suso Cecchi, poi quel film rompe l’incanto. Come se avessi fatto troppo e troppo lontano da quello che loro riconoscevano come cinema italiano. Io cercavo il mio modo di farlo. È stato il film che ha scompaginato, scatenato gli animi. Non era chiaro che etichetta mettermi, non assomigliava a nulla. Questa incapacità di capire che tipo di cinema facessi è stato motivo per cui ho avuto molto successo e molti detrattori. Il film vinse il Sundance, è restato nelle sale per sei mesi, ha incassato 33 miliardi di lire in anni in cui andavano Pieraccioni e Aldo Giovanni e Giacomo».
E ha spinto una nuova generazione di attori, Santamaria, già in «Ecco fatto», Accorsi, Mezzogiorno, Favino.
«Un gruppo di attori rimasto in primo piano nel panorama del cinema italiano, legati anche tra di loro. L’ultimo bacio resta un punto di riferimento, anzi i loro destini sono andati ad assomigliare ai personaggi che interpretavano, tutti quanti, da Favino a Stefano a Pasotti a Accorsi. Ci scherziamo su tra di noi».
Poi arriva Will Smith.
«Per un curioso allineamento di astri, in cui entra Mike Bongiorno e anche il Corriere, con un’intervista di Giovanna Grassi a Will che parlava de L’ultimo bacio. Avendo lo stesso agente riuscii a conoscerlo e lui mi propose La ricerca della felicità, tutto accadde in modo precipitoso. Non ebbi tempo neanche di capire l’enormità dell’evento. Siamo sempre in contatto, è un amico».
E Mike?
«Giravo uno spot con lui e Fiorello e mi chiamano da Hollywood. Lui mi sentiva parlare e si lamentava con Fiore per il mio inglese. Alla fine vado nel suo camper e lì mi arriva la chiamata definitiva. Surreale. Fa molto ridere».
Più dolorose le pagine su suo fratello Silvio.
«Non lo vedo dal 2007, dopo questo tempo si elabora una sorta di lutto, non ha voluto incontrare me, in nessuna occasione, i miei figli, i miei genitori, mia sorella, ma anche Giovanni Veronesi, Carlo Verdone, ha fatto terra bruciata intorno a sé, lontano da tutti quelli che lo hanno amato. La sua scomparsa ha lacerato il tessuto familiare, a ognuno manca un fratello o figlio. Rimane inspiegabile, farà lui il bilancio della sua vita. A un certo punto ha fatto dichiarazioni su di me talmente gravi, descrivendomi come uomo violento. Sono state il napalm. Le carte giudiziarie dicono l’opposto, la vicenda si è chiusa con l’archiviazione. Nel libro ho voluto raccontare tutto, non mi faccio sconti come uomo e padre».
Ci sono stati altri contatti?
«In uno degli ultimi due film cercai di fare una mossa di una forza sovraumana, di azzerare tutto ripartendo almeno professionalmente da dove avevamo interrotto. Ho scritto un personaggio per lui. Ma non ne ha voluto sapere. Ti risponde con gli avvocati e allora basta così».
Con Domenico Procacci, Fandango, avete un quasi rapporto da fratelli.
«È un grande amico, compagno di strada, ho condiviso momenti più importanti della mia vita, privati e lavorativi. È un vero rocker. C’era in clinica quando è nato il mio primo figlio, era con me al Sundance, è corso da me, lui maniaco di fumetti, quando avevo la possibilità di fare Wolverine con Hugh Jackman, a spiegarmene il valore. Un film che poi non si fece»
Come Dracula, Ponzio Pilato, il biopic su Tyson. Quale rimpiange di più?
«Uno a cui tenevo davvero moltissimo, che ho preparato per sei mesi, è Passengers, gli attori erano Keanu Reeves e Emily Blunt. Anche Ponzio Pilato era molto interessante. Ma non ho nessuna nostalgia né rimpianti. Scelte sbagliate ne ho fatte, per esempio Q uello che so sull’amore (con Gerald Butler) è stato un grande errore, non era giusto, la mia sensibilità mi suggeriva di non farlo. Mi sono lasciato convincere».
Racconta anche della sua balbuzie. Un limite?
«È stato un grosso problema da ragazzo perché non riuscivo a socializzare. Col senno di poi è stata una spinta in più per fare cinema. Sono un narratore di storie più di quanto sia stato capace di farlo con la parola».
Alla Festa di Roma si vedrà un assaggio della serie tv «A casa tutti bene» per Sky.
«La mia prima serie. L’ho fatta a modo mio, Sky mi ha lasciato completa libertà con giovani attori molto bravi».
Per i David, si è fatto la fama di rosicone.
«Possono dire quello che vogliono, ma resta una cosa clamorosa che non abbia più avuto nomination come miglior regista dal 2003. Sento una sorta di avversione, a prescindere da quello che faccio. Ho preferito uscire dall’Accademia. Sto meglio così devo dire».
Usa molto i social network, si pente ogni tanto?
«Sì, spesso. Per esempio con i fratelli D’Innocenzo che mi stanno anche molto simpatici e conoscono il fair play più di moltissimi altri di questo mondo. I social non sono un mezzo per comunicare concetti o raccontare emotività, solo per informare. A volte non ci penso».