Canalis: “Racconto in tv le vite da copertina. Ma senza troppo politically correct”

Canalis: “Racconto in tv le vite da copertina. Ma senza troppo politically correct”

«Ritorno con un programma che io guarderei». Finalmente Canalis. Dopo anni di Los Angeles, si riaffaccia alla tv raccontando le Vite da Copertina su Tv8, ogni settimana dal lunedì al venerdì a metà pomeriggio. «Mi rimetto al lavoro al cento per cento», spiega sorridendo mentre inizia la prima intervista da anni nella quale non si parla anche di George Clooney.

Come riparte al lavoro?

«Questo format è un ottimo modo di rientrare in televisione con qualcosa di bello che non sia impegnativa come una diretta in prime time».

Vite da copertina sembra quasi autobiografico. La sua è una vita copertina.

«È il dritto e il rovescio della medaglia. Certe volte sono stata in copertina con grande soddisfazione. Altre meno. Ma fa tutto parte del gioco. L’importante è che ci sia correttezza».

C’è stata?

«A volte no».

Però lei è ancora qua.

«Ho scelto di continuare a fare questo lavoro perché credo ancor che si possa fare in maniera costruttiva. Come vorrei fare con Vite da copertina. Senza ferire nessuno oppure creare problemi».

Lei di sicuro non ha problemi con gli allenamenti. Ha debuttato a «Striscia la Notizia» nel 1999, mica ieri.

«Mai stato più vero il detto mens sana in corpore sano».

Si dice da secoli.

«A dirla tutta, non penso di essere mai stata così bene. È molto facile essere in forma quando hai vent’anni e parlo del mio caso che non facevo nulla. Tocco ferro, anzi tocco legno come si dice negli States, ma non mi ricordo di essermi sentita bene come mi sento adesso alla soglia dei 43 anni».

Addirittura.

«Sono motivata. So quello che voglio. Sono molto più sincronizzata con me stessa, so quello che voglio, non sono più la ragazzina che ero dieci o quindici anni fa a Milano».

Più combattiva?

«No, ho solo fatto più sport da combattimento e questo mi ha aiutato a tenere la mente impegnata anche quando sono lontana dal lavoro».

La sfida di una mamma oggi è anche quella di proteggere i figli dall’ambiguità dei social.

«Skyler è una bambina fortunata da questo punto di vista perché ha una mamma che vive e lavora nel mondo digitale e ne ha viste di tutti i colori. Questi social media ci hanno fatto vedere realtà mostruose ma anche molto educative».

Ad esempio?

«Quando vengono usati per fare beneficenza o per richiamare attenzione su casi politici o su determinate persone. Devo dirla tutta? Skyler non sa che cosa sia Instagram ma, se vede il video di se stessa sul telefono con i trucchi della mamma, ci gioca. Ma la fermo lì. Non sa che cosa siano i like e, quando lo capirà, cercherò di fare il mio meglio come mamma e Brian come papà».

Elisabetta Canalis è il simbolo di una generazione di volti tv. Che cosa manca alla nuova generazione?

«Intanto bisogna capire che cosa si vuole fare, e non è facile. Quando si è giovani si è attratti da cose veloci e superficiali… La ventenne più furba sarà quella che, attraverso i social, riuscirà a comunicare ciò che sa fare. Può essere sport, può essere arte, può essere un modo di comunicare…».

Ma sui social la maggior parte degli account è pieno di «culi e tette».

«Ma loro si omologano a tutto il resto. Puoi postare delle foto sexy ma ci deve essere del contenuto nel tuo social media».

La fama pare un obiettivo essenziale.

«Ma non te la prescrive il medico. E quando l’era di Instagram o di Tik Tok sarà finita, bisogna che rimanga qualcosa per cui tu hai studiato, o hai fatto dei sacrifici».

Pentita di qualcosa?

«Adesso sono molto pentita di non essermi laureata. Se posso dare un consiglio di cuore alle ragazze che vogliono fare questo lavoro è di studiare. Sedetevi a tavola sapendo parlare di tutto, non solo di gossip».

Il politically correct va di pari passo con la cancel culture.

«L’ironia è che chi prima si definiva bullizzato, adesso è un bullo. Una situazione molto poco liberale. Si impone una sorta di purga, di censura».

Difficile per tutti.

«Si cammina costantemente sulle uova per paura di offendere una etnia, una minoranza o qualcuno che si sente emarginato. Il politically correct è partito per difendere le minoranze ma è diventato una caccia alle streghe. E chi non la rispetta, rischia di perdere il lavoro. Perciò in tv si cerca di non avere problemi. Una situazione paradossale che creerà più razzismo, intolleranza e odio».

Paolo Giordano, ilgiornale.it

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