Charlie Watts, l’anima dei Rolling Stones che amava il jazz

Charlie Watts, l’anima dei Rolling Stones che amava il jazz

Aveva annunciato la rinuncia al tour nei giorni scorsi

Charlie Watts era il più silenzioso e riservato dei Rolling Stones e anche, da diversi anni, il più riottoso a tornare suonare dal vivo. Stavolta purtroppo la decisione di non unirsi ai suoi compagni di sempre, che tra due settimane inizieranno le prove del tour, non era dipesa dal suo carattere ma da qualcosa di definitivo.

E’ morto in un ospedale di Londra a 80 anni. Era stato anche l’ultimo a decidere di entrare nella band nel 1963: aveva 22 anni, un buon futuro da grafico (per anni ha collaborato agli allestimenti scenici degli Stones) e un talento da fumettista (ha firmato una storia a fumetti di Charlie Parker). Ma era anche uno dei batteristi più in vista della ribollente scena Blues e Rhythm and Blues della Londra di quegli anni: Ginger Baker, per esempio, il folle virtuoso del rock inglese della prima ondata che disprezzava la maggior parte dei suoi colleghi, era uno dei suoi più accesi ammiratori. Charlie Watts è una leggenda del rock’n’roll che, nelle rare interviste concesse in 60 anni di carriera, raccontava che in realtà avrebbe desiderato nascere qualche decennio prima, per poter essere un batterista di Jazz e suonare al fianco dei suoi idoli come Charlie Parker, Dizzy Gillespie e compagni. Era stata sua l’idea di chiamare Sonny Rollins, “il Saxophone Colossus”, a suonare l’assolo di sax in “Waitin’On A Friend”. Era un Rolling Stone ma il grande amore musicale della sua vita è stato il jazz: ha anche diretto dei quartetti e una Big Band. La testimonianza più bella di questa passione è stata la visita a sorpresa, compiuta nel 2003, a casa di Stan Levey, un collega dal curriculum glorioso che è stato anche l’unico batterista bianco a suonare con Parker. Charlie Watts non era certo un virtuoso ma ha fatto parte della schiera dei musicisti insostituibili perché dotato di uno stile e di un suono inimitabili. Chiunque abbia parlato almeno una volta con Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood o Bill Wyman avrà sicuramente sentito che “Charlie” era il centro propulsore della band. Il sound degli Stones è fondato sull’Interplay tra le chitarre ma in realtà i leggendari riff di Keith Richards e il suo modo di scandire gli accordi dell’accompagnamento erano costruiti sull’intesa telepatica con Watts: quella struttura chitarra-batteria che, in modi diversi, da Hendrix con Mitch Mitchell ai Led Zeppelin con Jimmy Page e John Bonham, ha segnato la storia e l’evoluzione del rock. Charlie Watts aveva swing, nella vita e nel modo di suonare: cercava l’essenzialità della pulsazione, usava delle pause nell’accompagnamento che venivano confuse con la rozzezza tecnica e invece, insieme all’uso del tom e del timpano, erano proprio il segreto del suo stile. Era un uomo riservato e molto elegante, dotato di un raffinato senso dell’umorismo: il contraltare perfetto ai due super ego di Mick Jagger e Keith Richards. Un uomo che si concedeva di malavoglia perfino alle ovazioni del pubblico degli stadi dove suonavano: l’ultima volta che i Rolling Stones hanno suonato a Roma, Mick Jagger lo invitò ad alzarsi dalla batteria e a raggiungerlo sul bordo del palco: “Charlie Say Something (Charlie, di qualcosa)” gli disse e lui: “Hello”. Se ne va un’altra leggenda: da oggi sarà difficile ascoltare l’inizio di “Paint It Black” senza pensare che il mondo sarà un po’ più scuro.

Ansa.it

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