L’orchestra spaziale di Iosonouncane è atterrata al porto di Genova

L’orchestra spaziale di Iosonouncane è atterrata al porto di Genova

Jacopo Incani racconta il concerto di ieri sera al Balena Festival: «Sul palco ci sono tantissime macchine, ma nessun laptop. Mai fatta una cosa così impegnativa a livello fisico e mentale»

Il palco dell’Arena del Mare di Genova offre un fondale degno di un concerto dei Pink Floyd. Dietro ai musicisti si possono scorgere infatti enormi navi che sembra debbano, da un momento all’altro, andarsi a incagliare tra luci e strumenti. L’effetto è potente e bene si sposa a ciò che Iosonouncane ha proposto nella sera del 15 luglio, nell’ambito del Balena Festival.

Chi si aspettava la riproposizione integrale di Ira è rimasto spiazzato. Al posto dei sette musicisti che porteranno in tour l’album ce ne sono tre, Jacopo Incani accompagnato da Bruno Germano e Amedeo Perri, tutti circondati da un imponente armamentario di tastiere ed effetti. «Abbiamo fatto un’ottima e lunga pre-produzione di questo tour», mi racconta Jacopo alcune ore prima del concerto. «Una cosa che era necessaria perché siamo in tre e non abbiamo nessun laptop, solo tantissime macchine: cinque synth, organi, campionatori, beat che vanno continuamente modificati nei suoni, nei filtri, nei mutamenti degli effetti, nei pitch… Non avevo mai fatto una cosa così impegnativa a livello fisico e mentale, richiede un livello di concentrazione veramente mostruoso». E aggiunge «Nell’attesa del tour con l’integrale di Ira, che si svolgerà la prossima primavera con i musicisti che hanno partecipato all’album, ho optato per una serie di date estive con tre postazioni elettroniche che rappresentino una cosa “viva”, nella quale ci si prende la libertà di spaziare tra brani vecchi, nuovi, inediti, improvvisazioni. Senza l’obbligo di suonare a tutti i costi i pezzi pubblicati. Qualcosa che in prospettiva possa sviluppare in uno specifico versante elementi già presenti nel disco».

I tre infatti suonano come venti, come una gigantesca orchestra spaziale che in un viaggio senza pause accompagna gli ascoltatori a esplorare i meandri di un suono che pare proiettato verso il futuro, ma in realtà è antico come la terra. Ci si sente spesso dentro tutta l’anima sarda di Incani, pare la colonna sonora di un rito arcaico, tra lingue di altre ere e un substrato di ritmi e melodie che partono dal domani e si muovono a ritroso, verso il passato più remoto.

Da segnalare, tra accenni ai pezzi di Ira e Die, tutta una serie di improvvisazioni che espandono il tessuto dei brani e li trasformano, li rendono alieni al comune ascolto, optano per un gesto di rottura che è un bel pugno in faccia a chi è abituato a concerti a base di riproposizioni pedisseque del materiale in studio. Qualcosa che era più in voga negli anni ’70 che oggi, momenti nei quali rifare un pezzo paro paro al disco era una vergogna, dove il placo era un laboratorio. Incani: «Le improvvisazioni avvengono in momenti specifici del set. Da questo punto di vista è stata utile l’esperienza con il chitarrista e sperimentatore Paolo Angeli, che considero una sorta di cugino saggio, dall’altro della sua grande esperienza. Con Paolo riflettevamo sull’importanza in questo momento per un musicista di non concepirsi come un qualcosa di chiuso e finito ma disposto ad aprirsi a eventualità che il progetto può determinare. Per me l’idea di avere la formazione a sette che lavora in un modo, il duo con Paolo o questa formazione a tre, è una cosa che mi piace molto e che mi permette di ampliare e portare avanti degli elementi che nel disco ci sono ma che ho deciso di collocare in un spazio specifico per farci stare anche altre cose. E ti dirò, quando con questa formazione ci lasciamo andare potremmo improvvisare per delle ore, e questa cosa mi piace moltissimo».

Si prosegue quindi con un mappamondo musicale, nel quale la personalità di Japoco e di chi lo accompagna viene fuori in maniera prorompente, allo stesso tempo però è piacevole riconoscere le influenze, gli universi sonori che hanno permesso questo melange di note e colori. Sento echi di Dead Can Dance (specie nell’uso della voce di Jacopo che a tratti ricorda quella di Brendan Perry), il solito Battisti di Anima latina, i Radiohead più acidi, gli Hawkwind, i Boards of Canada, Robert Wyatt, i Pink Floyd. Il tutto sopra un ritmo costante, a volte addirittura techno, una techno ancestrale come si diceva prima, un ritmo dell’anima che scalda i corpi del migliaio di partecipanti. Come si ottiene tanto consenso con una musica dalle così alte ispirazioni e aspirazioni? Quale miracolo è avvenuto che ha permesso a così tanta gente di amare Iosonuncane, nonostante la peculiarità della sua proposta?

Jacopo ne è felice ma parimenti sorpreso: «Mi stupisce profondamente vedere un così numero ampio di persone, solitamente a favore di progetti più commerciali, che passano in televisione, che sono estremamente esposti, popolari, con promozioni a tappeto. Mi stupisco del successo di un disco come Ira, senza alcun tipo di promozione, anche perché le mie interviste sono rarissime, ne ho fatte solo sei o sette in Italia e credo cinque all’estero dall’uscita dell’album». Forse perché un album del genere non ha bisogno di molte parole, dice già tutto? «Anche, ma in generale ho sempre il grande timore di banalizzare, di non essere necessario per spiegare quello che faccio. Mi sembra di ridurre, di togliere senso spiegando le cose. Così rilasciare interviste mi costa fatica, non parto dall’idea che qualsiasi cosa dirò è importante perché sono io, parto esattamente dal presupposto opposto. Ti dirò di più, se avessimo potuto fare le esecuzioni integrali in anteprima non avrei fatto alcuna intervista. Per come siamo messi ora però, per dare una traccia a chi ascolta a riguardo di un disco di oltre due ore, scuro, nel quale la voce è immersa nel mix, senza un video, un singolo, senza passaggi nelle grosse radio… Devo in qualche modo rivendicarlo e sostenerlo, devo dare degli elementi, un piano cartesiano di quello che è il lavoro. Così ho deciso di fare qualche intervista».

Il pubblico ora è in vero stato di trance, soggiogato da un light show che va a sottolineare i momenti salienti di questo concerto-suite, un pubblico che si fa prendere dal ritmo incessante, ma che è anche attento a ogni particolare. Allora non è vero che per colpire bisogna tirare fuori canzoni brevi e di immediato riscontro? «Credo ci sia un grande fraintendimento nelle parole di coloro che cercano di trarre sempre delle conclusioni di massima su ciò che il pubblico è, ciò che il pubblico vuole o che si aspetta. È un atteggiamento paternalistico che io non sopporto. In realtà quando si parla di pubblico non si parla di nessuno, il pubblico è un’entità di mercato, è un target potenziale, non si parla di musica, cinema, o altro. Si sta parlando di economia, che è un’altra cosa. Credo che gli esseri umani abbiano bisogno di riconoscere e riconoscersi attraverso processi identitari in percorsi di credibilità e di ricerca. Credo sia questo che permette a un disco come Ira di avere l’attenzione che ha». Che aspettative aveva da un disco del genere? «Prima che uscisse Ira non avevo nessun tipo di pronostico, non sapevo come sarebbe potuto andare, come sarebbe stato accolto. Nel caso di Die invece ero più tranquillo, non c’erano aspettative e mi rendevo conto che nello scenario in cui il disco sarebbe uscito poteva risultare una mosca bianca. Ero quindi piuttosto convinto che ci si sarebbe accorti di questo disco. Nel caso di Ira invece i presupposti erano diversi perché c’era molta aspettativa su un lavoro che in parte negava il disco precedente, molto oscuro, molto cupo, un disco non ostico ma che richiede una sorta di accettazione e di abbandono all’ascolto. Una roba tosta di questi tempi. Ma se tu accetti il fatto che stai ascoltando della musica e non delle canzoni la prospettiva cambia. Io poi non ho nulla contro le canzoni, anzi. Quello che non mi piace è la canzone come prodotto di fruizione distratta, che si consuma in fretta, che deve funzionare subito, deve essere immediatamente efficace e alla fine non ti lascia nulla. Perché certe produzioni devono avere un solo livello di lettura, tutto deve essere in faccia, con masterizzazioni compresse, volume a manetta. Ira è un disco che ti dice semplicemente “se ti va ascoltami”, è musica, è banalmente della musica. Nel momento in cui accetti questa cosa e lo ascolti capisci che non è un disco ostico».

Jacopo insegue un percorso così personale, con una ricerca così intensa, che viene naturale chiedersi, e chiedergli, cosa potrebbe esserci dopo, cosa sarà il post Ira. «Bisognerà nuovamente spostarsi di lato, che è anche la cosa più divertente che ti permette di tirare fuori delle cose che non pensavi avesti potuto concepire, ti imponi di creare degli spazi vuoti che possano favorire la ricerca di nuove vie. È come dire che conosci perfettamente la strada che da casa ti conduce al lavoro e sei bravissimo a farla, prima la facevi in mezz’ora e adesso la fai in cinque minuti, sempre quella strada. A un certo punto però chiudono un pezzo e ti devi inventare un percorso alternativo. Cambiare il processo significa che devi lavorare su degli elementi nuovi, saltano fuori delle cose che all’inizio non sei neanche in grado di amministrare, di pilotare, devi assorbirle, devi capirle, capire dove sei in relazione a quegli elementi».

Una cosa è certa, Ira è stato uno dei dischi più attesi degli ultimi anni, un qualcosa che ha spinto in molti a una spasmodica curiosità, cosa tirerà fuori, che dico sarà…. E questo succederà anche in futuro, come quando ti chiedi, per artisti come i Radiohead, che tipo di cose faranno, sai già che il nuovo album sarà diverso dal precedente e attendi le novità fremendo. «Ero un fanatico dei Radiohead perché un cugino mi regalò una cassetta da 90 minuti dove c’era su un lato Confusion Is Sex dei Sonic Youth e sull’altro Ok Computer. Macinai questi dischi, con quello dei Radiohead che ascoltavo in maniera ossessiva, entravo in quel tipo di inquietudine, in quelle chitarre… Non ci potevo credere, io avevo una formazione floydiana e mi sembrava l’eredità di quel suono. Quando invece ho ascoltato Kid A non ci ho capito assolutamente nulla, non mi rendevo conto dove iniziavano e finivano le canzoni, che struttura avessero… mi mancavano dei riferimenti, mi mancava quella grammatica, non sapevo chi fosse Mingus, non avevo mai ascoltato i Can, i Silver Apples… Conoscevo il “grande rock”, quello che si conosce anche in provincia. Pian piano invece sono entrato in quel punto di vista e capisci che far canzone vuole dire mille cose, non è solo confezionare qualcosa che stia dentro dei parametri, che mi può anche stare bene, i Beatles facevano proprio di questo tipo di esercizio un punto di partenza per poi mettersi in gioco e tirare fuori quello che tiravano fuori. Loro avevano questo grande gusto di stratificare, di andare a fondo, adesso invece la tendenza opposta, semplificare, il prodotto viene immesso sul mercato con tutta una serie di caratteristiche preimpostate, con le targhette sopra».

E in un panorama musicale come quello attuale nella quale la parola “indie” sembra svuotata da ogni suo significato originario, Jacopo, che è il prototipo stesso dell’artista indie, come si trova? «A volte mi sento come un vecchio brontolone, per me la cultura indipendente è fondamentale. Se uno ha la cognizione di cosa è il pop, nel senso più alto del termine, come terra di sperimentazione e sintesi, sa benissimo che i grandi autori pop sono coloro che dall’esperienza di ricerca di altri riescono ad avviare processi di sintesi. Senza lo stronzo che suona davanti a 30 persone perché sta ricercando una cosa che magari non riuscirà mai a trovare, il pop non ha vita. Quando viene portata avanti l’idea che funziona solo ciò che è efficace, e invece è elitario e autoreferenziale ciò che non ha pubblico questa cosa mi manda fuori di testa, mi fa rabbrividire, incazzare, perché è una logica mercantile, è la logica della maggioranza, o di una minoranza che si sente maggioranza, è terrificante. In questi anni abbiamo assistito a un impoverimento dei circuiti perché i posti dove magari facevo dieci date al mese davanti a 30 persone senza cachet non esistono più, e sono sempre meno i posti dove puoi trovare un ragazzo come ero io, con campionatori tutti distorti perché non avevo idea di cosa fossero mixer o equalizzatori, faceva comunque le sue cose, giovanili, immatura quanto vuoi però avviava qualcosa. Ora tutto passa da Spotify, dal numero, dal riconoscimento dei numeri, è una logica becera. Come quelli che ti riconoscono come musicista solo nel momento in cui fai i soldi, a me di cose del genere non frega nulla e sono felice di avere avuto riconoscimenti e audience con le cose che faccio».

Il concerto finisce all’improvviso, dopo una lunga cavalcata di un’ intensità che lascia attoniti. Uno dopo l’altro i tre lasciano il palco, restano solo le macchine che poi si spengono da sole. Le richieste di bis sono disattese, il rito è compiuto, non serve altro.

Rollingstone.it

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