Non si chiama per caso FRANCE il nuovo film di uno degli autori prediletti dal festival, Bruno Dumont, proposto oggi in concorso. France è il nome della protagonista, giornalista in carriera nella Francia di Emmanuel Macron, ma è la Franci il vero obiettivo di una satira che si vorrebbe al vetriolo e che invece oscilla a più riprese tra la risata e il melodramma.
In buona sintesi il racconto è quello di una giornalista rampante, France De Meurs, che scala la piramide della notorietà, del prestigio professionale, dei guadagni a colpi di spregiudicati scoop, sempre più spesso orchestrati appositamente e con dubbio gusto. La fama pubblica si paga però con l’insicurezza personale, con la schizofrenia di comportamenti paralleli, tra i teatri di guerra in cui l’intrepida reporter finge di esporsi al pericolo, e i fastosi saloni del potere le cui lusinghe sono tanto attraenti quanto false e caduche. France comincia a scivolare su una china pericolosa proprio nel momento della massima gloria e, ad un certo punto, non avrà più la forza e i mezzi per arrestarsi e nascondere la sua umana fragilità.
Cinema e giornalismo vanno a braccetto da quasi un secolo, per lo più su modelli americani che hanno codificato i personaggi, il linguaggio, l’amarezza morale con cui i cineasti giudicano l’effimera riuscita di tanti eroi della penna e della telecamere. Bruno Dumont si è illuso che la sua recente vena – sarcastica, divertente, popolare – lo tenesse al riparo dal “déjàvu” e talvolta (come nella sequenza in cui l’eroina ricostruisce il gesto di vittoria di un miliziano con i modi della celebre fotografia di Robert Capa) scopre il suo stesso gioco per dire quanto sia infida l’informazione, quanto sia manipolata la verità delle news.
Il problema è che il suo cinema non ha sempre la felice cattiveria della migliore commedia all’italiana e che, da un certo punto in poi, appare più interessato alla dimensione psicologica e al melodramma in cui si muove il suo personaggio che all’affresco morale che le ha costruito intorno. Tutto ciò lascia più di una volta spiazzata la sfolgorante protagonista, una Lea Seydoux incerta tra due registri interpretativi sostanzialmente opposti. Col risultato di divertire e “mordere” fino a un certo punto (specie nella prima parte) e poi di sfiorare il cliché.
All’origine della sceneggiatura c’è una penna eccellente come quella di Charles Péguy, autore del testo omonimo, che Dumont utilizza con l’abituale spregiudicatezza, attualizzando situazioni e caratteri, creando un divertente siparietto in post-produzione tra il Presidente e la reporter nel corso di una paradossale conferenza stampa.
Purtroppo l’impressione generale è più quella di un “divertimento” che chiama lo spettatore alla complicità anziché di quell’atto d’accusa alla superficialità colpevole dei media al tempo della tv e dei social network che forse Dumont aveva in animo di creare. Confronto interessante con il più tradizione – ma dotato dell’accento della verità – “A Private War” di Matthew Heineman con Rosamund Pike intrepida e nevrotica reporter.
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