Un viaggio spaziale sulle tracce artistiche di David Bowie

Un viaggio spaziale sulle tracce artistiche di David Bowie

A oltre cinque anni dalla morte David Bowie continua ad attirare l’attenzione mediatica e incuriosire il pubblico come se davvero il tempo si fosse fermato e lui sulla terra ci fosse ancora, caduto non si sa da dove. Una linea che continua ininterrotta dal 10 gennaio 2016 e negli ultimi mesi si è scatenata l’editoria, pubblicando di tutto e di più: i cento libri fondamentali sulla formazione – il Book Club compilato da John O’Connell- le sue interviste -Sono l’uomo delle stelle- un primo volume che ne traduce le canzoni dall’inizio all’intero decennio ’70, l’album illustrato per bambini, Piccoli uomini, grandi sogni, l’agiografia Generosity scritta da Gianluigi Ricuperati.

Bowie, insomma, come Pier Paolo Pasolini è ancora una ferita che brucia nella nostra storia recente, enigma ben lungi dall’essere risolto, insieme di contraddizioni che lascia spazio a letture e interpretazioni le più differenti, scomodando simbologie alchemiche, mistiche, esoteriche, significati reconditi che hanno alimentato il mistero invece di scioglierlo.

Nel 2013, stesso anno in cui pubblicò il suo penultimo disco The Next Day, Bowie ricevette l’omaggio del Victoria & Albert Museum con una mostra che oltre a raccogliere cimeli e memorabilia, costumi di scena, videoclip e quant’altro ne esaltava il rapporto costante con il mondo delle arti visive: dagli esordi di Ziggy Stardust agli ultimi lavori, Bowie è stato un trait-d’union tra l’intrattenimento della musica pop e l’ambizione a qualcosa di più colto e intellettuale, come appunto l’arte contemporanea. Per la grafica di Space Oddity il graphic design scelse di sovrapporre la sua testa bionda e riccioluta a un dipinto di Victor Vasarely, maestro dell’Op Art che risulta il movimento pittorico più vicino alla Space Age di fine anni ’60. Più volte Bowie ha collaborato con artisti per la creazione di artwork, dal belga Guy Peellaert che ha firmato la copertina di Diamond Dogs allo scultore britannico Derek Boshier per The Lodger, e per i video ha chiamato tra gli altri Floria Sigismondi e Tony Oursler.

Collezionista della young British art e di opere rare e sfiziose, come la scacchiera di Man Ray del 1945 acquistata nel 1992 e appena passata in asta a 106mila sterline, editore della rivista Modern Painters, pittore a sua volta seppur con scarsi risultati che fortunatamente lo convinsero a lasciar perdere con tele e pennelli, Bowie è amato oltre che dai fans persino dai musei e dai curatori, sicuri di trovare nei suoi dischi e nelle sue canzoni quella scintilla per poter realizzare una mostra in suo onore. Accade alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino che ha appena finalmente riaperto Space Oddity, anche se poi il sottotitolo vira da un’altra parte «spazi e corpi al tempo del distanziamento sociale».

Sarà una giusta scelta di marketing ma ci raffredda gli entusiasmi perché vorremmo che almeno i musei fossero porti franchi rispetto alla pandemia. Non importa, andiamo a cercare opere bowiane tra i tesori (è proprio il caso di dirlo) della collezione di famiglia, il cui filo rosso è certamente costituito dalla danza, una disciplina che David amava molto fin da quando conobbe Lindsay Kemp, ballerino, coreografo, trasformista, alla base dei tanti travestimenti e del muoversi flessuoso sul palco. Danza che nell’arte diventa performance, libera espressione del corpo come appare nei diversi video della collezione che pur non avendo nessun contatto diretto con Bowie ne seguono cronologicamente lo stesso iter, quello più sperimentale negli anni ’70 fin al momento disco-pop di Let’s Dance. Alcuni artisti di questa mostra sono cresciuti ascoltando Bowie, i più giovani continuano a produrre ben oltre la sua morte e quindi ci diverte cercare qualche associazione di idee. La più evidente è rappresentata dal grande dipinto optical in bianco e nero di Tauba Auerbach, pittrice californiana nata nel 1981, che infatti ci rimanda al Vasarely di Space Oddity. Ci estendiamo fino alle fotografie di Gregor Schneider e alle rovine che fanno pensare al Bowie berlinese di Heroes al tramonto della vecchia Europa.

Sono appunto suggestioni che personalmente preferisco rispetto a letture troppo didascaliche e banali. Si passeggia tra i lavori di Harun Farocki, Paul McCarthy, Hiroshi Sugimoto, Douglas Gordon, Thomas Ruff ed è sempre un bel vedere, con lo spirito di Bowie che aleggia e ci protegge. Tutto ciò fino al 13 giugno, e che sia la volta buona.

Luca Beatrice, ilgiornale.it

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