Un po’ gli rode, questa storia, lo innervosisce. E allora prende un bel respiro rilassante e cerca di spiegare cosa ha provato quando si è visto schiaffato nella centrifuga della notorietà perché una conduttrice televisiva (Isoardi) aveva chiuso una storia d’amore con un politico (Salvini) citando pubblicamente un suo verso. «Il fatto che una mia poesia abbia preso una connotazione per così dire impropria non mi ha fatto piacere.
Ero già uno con un suo percorso personale e artistico, mi sento un anarchico ordinato, vivo sulle montagne tra le mucche e i cani. È arrivata la Isoardi e ha sparigliato le carte: ero in tour, avevo anche dei sold out. Certo, avrei preferito mi citasse Dario Fo…». E puntualizza: «Sono bombardato da persone che si mettono insieme o si lasciano con le mie poesie».
Acqua passata, comunque. Adesso Gio Evan è in gara a Sanremo (il 12 marzo esce il nuovo disco «Mareducato» e il 16 il suo nuovo libro «Ci siamo fatti mare»). È stato catapultato al festival dalla telefonata di Amadeus, «ero là sulle cime, una cartolina tutta diversa, e mi ritrovo qui, a fare le prove con questi 70 orchestrali che ogni volta, alla fine del pezzo, ringrazierei uno ad uno, mi sembra perfino troppo, sapete come si dice: “non son degno di partecipare alla tua mensa…”».
All’Ariston arriva con «Arnica» che è uno strano titolo per una canzone anche se di pomate, unguenti, balsami di questi tempi abbiamo gran bisogno per il corpo e l’anima. «L’arnica è anzitutto una pianta, non bisogna mai dimenticare l’origine delle cose, mai scordare da dove si viene. Una pianta piccola, delicata – specifica dall’alto della sue specializzazione di terapista aiurvedico – che però tende all’immortalità, che vive in montagna, come me. Ci insegna che ambire all’eterno è ammettere la propria fragilità».
Poeta, musicista, filosofo, asceta, globetrotter? Chi è in realtà Gio Evan? Anche se ha pubblicato 10 libri di versi e 2 soli dischi ammette: «Ormai non riesco più a distinguere dove finisce la poesia e comincia la musica». Colpa di una chitarra che gli fu regalata in una maniera che vale la pena fargli raccontare per capire la persona: «Venivo da tre anni in India, volevo vedere il Sudamerica e l’ho girato in autostop e in bici. In Argentina c’era un hippie che doveva imbarcarsi su un aereo e aveva una chitarra di troppo. La vuoi?, mi disse, te la regalo. Ho cominciato da lì. Adesso non saprei più comporre una canzone se non imbraccio la chitarra. La suonavo anche quando ero ospite delle tribù sciamaniche».
«Arnica» però l’ha costruita non sulle sei corde ma sul bianco e nero di una tastiera. «Non potevo più suonare perché durante un’arrampicata sono scivolato e il dito medio s’è incastrato nella presa: mano ingessata. Così ho preso lezioni di piano».
La ricerca del sentimento ideale sembra il senso del brano sanremese. «Per spiegare che in fondo non è difficile, è che spesso abbiamo paura delle conseguenze dell’amore, per dirla alla Sorrentino, di quell’investimento di energie che devi mettere in un rapporto, di quel lavoro che devi fare quotidianamente per la felicità, quasi timbrassi un cartellino. E dovremmo prima innamorarci della ricerca di noi stessi, sbirciare in quella piccola profondità che non sempre è banalotta come crediamo». Non è altrettanto semplice con l’angoscia che ci ha regalato la pandemia: «Sì, è vero, non riusciamo più ad essere spensierati».
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