Come hanno scelto gli intervistati, la scoperta improvvisa di Fabio Cantelli, le polemiche di Red Ronnie e non solo. Paolo Bernardelli, uno degli autori di SanPa, racconta la lavorazione della docuserie Netflix su San Patrignano: “Tenere fuori certi temi come la Legge Basaglia è stato doloroso, ma era necessario nell’economia del racconto”.
L’uscita di SanPa, la docuserie Netflix su Vincenzo Muccioli, ha aperto una doppia breccia. La prima nell’opinione pubblica, che dopo anni di silenzio rivive una storia a dir poco incredibile, ancora di più se compressa in cinque ore. L’altra nel mercato italiano dell’audiovisivo, legittimando anche in Italia il format della docuserie che Netflix ha reso un suo marchio di fabbrica nel mondo. Per capire meglio un fenomeno capace di riaccendere il dibattito sopito tra chi critica aspramente il metodo San Patrignano e chi ha una visione più edulcorata di Muccioli, ci siamo fatti raccontare il progetto da Paolo Bernardelli, uno dei tre autori della serie Netflix di cui si discute molto negli ultimi giorni.
Paolo, come nasce il progetto di SanPa?
Parte da un’idea di Gianluca Neri e della sua casa di produzione. Per comprendere gli obiettivi della serie e pianificare un canovaccio, nasce un gruppo di lavoro (writers’ room, ndr) con produttori e autori, io e Carlo Gabardini, cui si aggiungono le junior Elena Grillone e Grazia Sambruna, che hanno avuto la funzione di una memoria storica fondamentale, prendono appunti e registrando tutte le idee che emergevano. Bisogna considerare, infatti, che noi trattiamo un periodo ristretto della storia di San Patrignano, ma non so dire quante migliaia di storie ci siano passate davanti. A un certo punto diventa impossibile navigare senza una traccia.
Questo canovaccio di base precede le interviste ai protagonisti, che per forza di cose stravolgono tutto.
Quando fai un prodotto così capisci che puoi scrivere una storia raccogliendo i dati, ma la cosa di cui non puoi tenere conto, è che tu non conosci davvero i personaggi finché non vai ad intervistarli realmente. Ad esempio questo si rivela determinante quando a metà riprese appare come un fantasma Fabio Cantelli (ex ospite della comunità ed ex responsabile comunicazione di San Patrignano ai tempi di Muccioli, ndr).
Lui vi porta in una direzione diversa?
È stato cruciale, si è rivelato una persona che incarna tutte le riflessioni e i dubbi che avevamo avuto fino a quel momento. Soprattutto restituisce quella componente emotiva che noi autori non potevamo raccontare. Razionalmente pensa delle cose, ma con il cuore è ancora lì a San Patrignano.
Come mai non era stato preso in considerazione prima?
Per le interviste abbiamo sondato una ottantina di profili, di ogni tipo. Dalla maestra che insegnava nell’istituto che c’è di fronte a San Patrignano a persone che hanno fatto parte di vari gruppi interni alla comunità. La quantità di gente passata lì è sconfinata. La segnalazione di Cantelli ci arriva solo a lavoro iniziato, troviamo il suo libro su internet e Carlo Gabardini lo legge in una notte. La mattina dopo ci dice che andava chiamato subito.
Che differenza c’è tra la scrittura di un prodotto di finzione e quella di una docuserie come SanPa?
Quando tu scrivi fiction, crei un mondo, mentre la docuserie è quasi un lavoro di indagine, trovare prove, tentare di dimostrare. Ti ritrovi quasi ad essere un investigatore privato.
Però è anche scrittura. Penso proprio a Cantelli e al momento in cui voi “svelate” lui abbia contratto l’AIDS, costruito come un colpo di scena. La ricostruzione narrativa è fondamentale.
Certo. Il processo di realizzazione di un prodotto del genere prevede secondo me tre fasi: la preparazione di tutto il materiale e l’elaborazione delle domande, per capire dove vuoi andare; la seconda parte è quella delle interviste, che è soprattutto relazionale, in cui devi essere pronto a eventuali cambi di direzione rispetto a quello che avevi immaginato; poi c’è il montaggio. Ed è ovvio che il montaggio sia narrazione, basti pensare alla lievitazione di SanPa unita accostata a quella di Muccioli che ingrassa. Noi siamo partiti da un canovaccio e poi abbiamo discusso in cinque, con la regista Cosima Spender e il responsabile del montaggio Valerio Bonelli.
A SanPa molti contestano di non dare spazio sufficiente al fenomeno della droga di quegli anni, concentrandosi solo su Muccioli. Sei d’accordo e, se sì, c’è una spiegazione?
Per me è tutta una questione di economia del racconto. Ci sono tante cose che abbiamo lasciato fuori, per molte delle quali ho sofferto tantissimo, però a un certo punto bisogna scegliere la via migliore per raccontare quella storia. Noi abbiamo cercato il giusto equilibrio tra il dover fare una storia che stesse in piedi, che fosse forte e d’impatto e che, al contempo, riuscisse a contenere più informazioni possibili.
Una delle cose che ti è dispiaciuto tenere fuori?
Ad esempio la Legge Basaglia, fondamentale per capire la storia di San Patrignano che nasce proprio quando la legge viene approvata. Abbiamo testimoni che ci dicevano come all’inizio molte famiglie portassero in comunità le persone perché non potevano più portarle in manicomio.
Però questo passaggio manca. Perché?
Perché se tu fai un racconto che abbia anche un respiro internazionale, devi prenderti il tempo di spiegare cosa sia quella legge, non potendo dare per scontato che tutti la conoscano e che, soprattutto, sia nota fuori dai confini italiani. Quindi ti chiedi se valga la pena usare questo tempo per aprire una parentesi che forse non diventa fondamentale all’interno del discorso. Qualcosa deve rimanere per forza fuori, in cinque ore di serie raccontiamo un arco temporale di 17 anni.
In base a quale criterio avete scelto gli intervistati?
Abbiamo fatto una scelta che definirei muccioliana. Muccioli era contro gli esperti e noi abbiamo usato questa sua filosofia per la serie. Ci sono decine di giornalisti che hanno raccontato con dovizia di particolari San Patrignano e che sono incredibilmente esperti del tema. Ma noi non volevamo fare un prodotto di opinione, volevamo raccontare le storie di persone legate emotivamente a quella vicenda.
Quindi perché coinvolgere Luciano Nigro e Red Ronnie?
Abbiamo coinvolto Luciano Nigro dopo aver trovato quei piccolissimi articoli di giornale a firma sua in cui si parlava per le prime volte del “santone della collina”. Ci siamo detti che lui avesse una connessione emotiva con quel posto, come tutti i testimoni di SanPa. Lo stesso vale per Red Ronnie, fondamentale per questo documentario. Lui è stato un grandissimo testimone di questa storia, il suo archivio è pazzesco. La scena di Muccioli che sta male l’ultima volta in cui si vedono è commovente.
Red Ronnie vi ha però contestato, dicendo che SanPa demonizza Muccioli.
Ma questo è legittimo, Red Ronnie si è autodefinito “un soldato” e combatte per quella bandiera. In un certo senso lui, nel difendere Muccioli, fa proprio da contraltare a Luciano Nigro che invece aveva più dubbi in merito.
Il respiro internazionale della serie si intuisce anche dalla traduzione inglese di qualsiasi frase in SanPa. La consapevolezza di parlare a un pubblico internazionale ha condizionato il racconto?
Più che altro è stata determinante la consapevolezza che molto di noi, anche italiani, non conoscessero la storia di Vincenzo Muccioli e San Patrignano, nonostante l’enorme eco mediatica del tempo. Io stesso, nato negli anni Ottanta, ho vissuto questo rumore di fondo quando era già nella sua fase calante, le canzoni di Jovanotti e dei Punkreas me lo fanno ricordare quasi come un fenomeno pop. Sapevo poco in merito e, non volendo fare una serie per nostalgici, era un problema che dovevamo porci.
Da narratore hai percepito un condizionamento mentre ascoltavi i racconti?
Non posso certamente esimermi dall’avere un’opinione dei fatti, ma io ho cominciato la mia vita lavorativa come cronista e so che la mia opinione non interessa nessuno e non deve interessare nessuno, perché vale come quella di chiunque altro in Italia. Il tentativo è stato proprio quello di eliminare qualsiasi riferimento alle opinioni personali. Posso assicurarti che ognuno di noi cinque ne avesse una e non sono mancati confronti accesi, penso però che il risultato dimostri come il cinema sia un’arte collettiva, come gruppo siamo riusciti a mantenere un equilibrio. Noi ci siamo posti una grande sfida, con una cosa molto semplice che oggi può apparire sovversiva: abbiamo creato una storia che non ha risposte e sentenze, quando di solito siamo abituati ad averne sempre. Ci prendiamo un rischio, stimolando l’intelligenza e gli interessi dello spettatore.
Parliamo del finale. La presunta sieropositività di Muccioli sembra trattata parzialmente, quasi come si trattasse della premessa di una seconda stagione?
Non abbiamo certezza sulla morte per complicazioni legate all’AIDS di Vincenzo Muccioli e non ci interessava perseguire lo scandalo. Ci siamo piuttosto domandati del mistero sulla morte, chiedendoci perché fosse stata tenuta nascosta la causa. Io credo che quel mistero sia stato creato e alimentato.
Nello stesso finale mancano riferimenti su come sia San Patrignano oggi.
Il nostro arco narrativo era quello legato alla fondazione della comunità fino alla morte del fondatore. Ed era soprattutto la storia dei nostri personaggi, Muccioli e gli intervistati, ognuno con il suo arco narrativo.
SanPa fa da apripista in Italia alle docuserie, genere in assoluta espansione. Vi siete ispirati a qualche riferimento particolare?
Una cosa certa è che la docuserie si stia imponendo come linguaggio del nostro tempo. Sicuramente prodotti come The Last Dance, Tiger King e altri hanno aperto questa strada e sono stati per noi un riferimento.
Ora però la tua opinione su Muccioli puoi dircela.
Credo che la più grande verità di Vincenzo Muccioli sia contenuta in quella famosa frase “noi qui dentro facciamo iniezioni d’amore”. Molti degli intervistati sono ancora oggi innamorati di quell’uomo che li ha certamente amati ed è stato ricambiato. Quando ascolti quelle persone, non puoi fare a meno di notarlo.
Andrea Parrella, Tv.fanpage.it