«C’è solo una cosa più crudele della morte: morire in terapia intensiva. Sei nudo con un solo lenzuolo e un freddo terribile. Hai sete e non ti danno da bere. Poi il tempo non passa mai. Credi di aver dormito delle ore e invece sono passati solo 5 minuti. L’ho provata quando qualche anno fa mi hanno operato al cuore. Al risveglio, oltre a mia moglie e ai miei figli, ho visto al mio fianco Stefano che mi sorrideva dietro la mascherina. La sua sola presenza mi ha rassicurato. Io non ho potuto ricambiare la cortesia». Così Red Canzian all’indomani della scomparsa dell’amico e socio d’affari Stefano D’Orazio. «Non si è mai preparati alla morte di un amico. Stefano aveva la capacità di ridere anche nelle situazioni più difficili. Soffriva di piccole infiammazioni e lo curavano col cortisone. E il Covid-19 ha trovato terreno fertile… infatti è sopraggiunta una polmonite, febbre alta, dialisi per insufficienza renale. Alle 22 di venerdì la notizia: Stefano era morto dopo una settimana di alti e bassi. Da 36 ore non facciamo altro che piangere».
Chi era Stefano D’Orazio?
«Lui è stato un riferimento costante per i Pooh. Aveva un pensiero forte, che volava alto, proiettato verso il futuro, una capacità di analisi e sintesi invidiabile. Per lui il lavoro era un gioco. Lui sapeva sempre cogliere il lato comico delle situazioni. L’ironia era una sua caratteristica. Una bella persona, un grande professionista. Non aveva la mentalità dell’orchestrale, non ha mai operato nell’ottica “prendiamo quello che c’e’ da prendere”, ma ha pensato agli investimenti, a volte anche più alti dei guadagni, e questo ci ha fatto arrivare al 50ennale. Era un imprenditore».
Qual era il segreto della longevità dei Pooh?
«Aver preso direttamente possesso di tutti gli aspetti del business, dalle sale di registrazione (io comperai dalla CGD quelle di Via Quintiliano a Milano e quelle del Castello di Carimate) alle edizioni musicali, alla gestione dei tour».
Com’era D’Orazio nel quotidiano?
«Era una persona precisa, trasparente sensibile. Il contrario dello stereotipo sui romani, era preciso, puntuale. La macchina organizzativa dei Pooh era opera sua. Non c’era limite alla sua creatività: i palchi enormi, i fumi, i laser, i Tir carichi di apparecchiature. Era un piacere lavorare con lui. Il suo motto era “divertirsi” costi quel che costi. A volte gli allestimenti costavano più di quel che i concerti incassavano. Ma in questo luna park i Pooh si scatenavano e generavano entusiasmo».
E adesso?
«Non si è mai pronti alla morte di un amico. Ma a questo tipo di morte meno ancora. Io Roby e Dodi stiamo piangendo come ragazzini. Per noi è un pezzo di vita che se ne va. E poi non poterlo vedere, non sapere cosa fare. Un male terribile e bastardo che ti nega anche l’ultimo saluto».
Un episodio rivelatore della sua personalità?
«Lui era una specie di Robin Hood. A Trieste fu arrestato prima del concerto. Una automobilista insultava una signora con un bambino che attraversava molto lentamente sulle strisce. Lui prese a male parole l’automobilista che poi si rivelò essere un carabiniere. Così finì a passar la notte nelle carceri del Coroneo e noi suonammo in tre. Ricordo ancora i cori degli altri detenuti quando si scoprì che il nuovo arrivato era Stefano D’Orazio. L’episodio è un esempio della sua vocazione alla bontà, a difendere il deboli, gli svantaggiati».
Le sue intuizioni più importanti?
«L’ultima nel 2009, quando decise di uscire dal gruppo. Aveva capito che era finita un’epoca. Che aveva detto tutto quello che doveva dire. Stefano si guardava allo specchio e non si raccontava le bugie… Voleva scendere dal palco. Aveva bisogno di vivere la vita misurandosi su altri progetti, da solo».
E il suo privato?
«Quando decise di sposarsi con Tiziana nel 2017 giocava a fare il perplesso. In realtà era profondamente innamorato di lei che in questi anni è stata sempre al suo fianco».
Affranti sono pure gli altri due Pooh Roby Facchinetti e Dodi Battaglia. «Scusa, ma riesco solo a piangere» messaggia Facchinetti. Mentre il chitarrista della Band Dodi Battaglia piange «l’amico per sempre». «Anche mio figlio Daniele che lavora a RTL ha contratto il virus come molti altri nel mondo dello spettacolo. Ma non sapevo che Stefano avesse altre patologie. Stefano aveva portato nel gruppo una umanità speciale. Qualcuno obiettava che non era un grande batterista. Ma neanche Ringo Starr lo era. Eravamo compenetrati e complementari: Roby caparbio, io musicista emiliano, Red persuasivo e lui… simpatico cazzaro. Provo un dolore che non sparirà mai: tutte le volte che lo vedrò in tv o vedrò parcheggiata una jaguar bianca come la sua, la ferita continuerà a bruciare».
Mario Luzzatto Fegiz, Corriere.it