Il rapper romano: “L’hip hop ha due anime, in questo momento è il genere più inflazionato ma anche quello più alternativo. Riesce a suonare pop/mainstream ma anche sporco e ribelle”
È uscito lo scorso giovedì notte ‘L’Ottavo Re‘, nuovo disco di Piotta.
Nuovo si fa per dire, perché in realtà potrebbe essere catalogato come primissimo disco del rapper romano, che in quarantena ritrova materiale inedito su supporti ampiamente superati come musicassette e decide di portare tutto in studio e inciderlo.
Un’operazione non solo interessante ma che varca i confini della nostalgia per diventare pura documentazione sulla nascita di una scena, quella romana, che farà letteralmente storia. Il Piotta de’ ‘L’Ottavo Re’ dunque è quello pre ‘Supercafone’, in un momento storico in cui il rap si sa solo quello che non è: non è un lavoro, non è in classifica, non esiste nei cuori e nelle orecchie del pubblico.
In questo universo, datato metà anni ’90, in maniera sporca, sbrindellata, spregiudicata, orbitano le anime di Piotta e della sua crew i Taverna Ottavo Colle che poi senza di lui prenderà il nome dei Colle der Fomento. ‘L’Ottavo Re’ è dunque un viaggio nel passato su una nave guidata da uno dei protagonisti assoluti di quel periodo, quando la scena rap di Roma e anche la stessa Roma e anche la stessa Italia, erano tutt’altra cosa.
Com’è nata l’idea di questo disco di vecchie incisioni?
“Complice il covid e l’essere forzatamente recluso a casa come tutti, ho riascoltato un sacco di vecchie cose altrui e mie e ho pensato che poteva anche diventare quel primissimo album che avevo in mente ai tempi. Allora ho preso queste cassette, le abbiamo restaurate e rimasterizzate, facendo il possibile; certe cose suonano meno bene”.
“Abbiamo cercato soprattutto di raccontare tutta la passione, l’umanità e anche il coraggio che c’era in quegli anni; ma anche la grande libertà creativa, perché risentendo alcune cose sono veramente, nel senso buono, selvagge. Non avendo nessuno di noi qualcuno alle spalle a consigliare, provare a imporre, suggerire, eravamo così, con tutto quello che ci veniva in mente con le nostre capacità di giovanissimi artisti ancora inesperti messi in studio”.
“Questa energia che ancora trapela nelle varie tracce – spiega – è forse la cosa più bella per raccontare, almeno a livello emotivo, l’hip hop di quegli anni. E li racconta anche a livello sonoro, specie per quanto riguarda Roma, perché contiene delle cose che sono proprio manifesto dello spirito che avevo e che avevamo noi allora della Taverna Ottavo Colle, come crew”
Com’era allora l’hip hop italiano? Cosa significava fare rap ai tempi?
“Significava un po’ l’esatto opposto di quello che per certi versi significa oggi. Oggi significa ancora quella cosa per alcuni, ma per moltissimi significa fare e seguire un genere in grande voga, che ti permette anche di poter avere un potenziale successo di ampio respiro, di grandi numeri, di essere il vincente che cavalca l’onda che tutti inseguono”.
“Allora invece era sicuramente fare il diverso, quello alternativo ai gusti della massa, per alcuni il nerd, quello isolato che riesce ad esprimersi grazie a questa musica; cioè riuniva delle anime molto più contrastate e contrastanti rispetto alle mode imperanti che ascoltavano quel pop italiano anni ’90 che ora risulta vecchio come il cucco”.
“Ascoltare l’hip hop era una cosa di nicchia fatta da poche persone unite dal voler essere diversi dalla massa imperante, per cercare un percorso alternativo che in Italia non c’era mai stato, salvo rarissimi casi”
Ai tempi come ti immaginavi il futuro del rap in Italia?
“Onestamente non me lo immaginavo, facevamo tutto in maniera molto passionale: ci piaceva la cosa, avevamo un approccio rispettoso di questa cultura, che non apparteneva ai nostri avi però che in qualche modo sentivamo molto nostra; e l’idea era quella di divertirci e crescere giorno per giorno sapendo che ad una certa avremmo dovuto dire ‘vabbè, l’hip hop in Italia funzionicchia, ce l’abbiamo messa tutta, però sarà difficile vivere di questa cosa”.
“Poi aumentava sempre di più la consapevolezza che poteva diventare un lavoro vero e proprio, perché i live da che erano uno al mese diventavano quattro, da che erano quattro diventavano un tour, la canzone in studio diventava un album vero e proprio con delle recensioni e in un mondo dove non c’era internet le cose circolavano”.
Invece com’era Roma ai tempi?
“Quando ognuno di noi risponde a queste domande, aldilà del lavoro che fa, il ricordo è sempre un po’ mescolato all’età, a vent’anni alla fine dove stai stai in qualche modo risulta tutto sempre molto più figo di quanto magari non fosse nella realtà”.
“Però ricordo che musicalmente parlando noi romani ci percepivamo alla pari dei colleghi di altre città; Roma era in una fase di vera espansione creativa, come in questi anni con l’indie, la trap, passando per il rap più classico come quello di Rancore”.
Ti saresti mai aspettato che diventasse un fenomeno di massa?
“Io ho sempre sperato e contribuito positivamente affinché ciò accadesse, ma non ti nego che nella mia migliore delle ipotesi mai avrei pensato che diventasse la musica di riferimento per tutti i ragazzi, le ragazze, giovanissimi e adulti d’Italia”.
“Forse lo è anche troppo perché ha veramente oscurato senza pietà il pop italiano. Ora si è mescolato con il pop indie che a me piace abbastanza; l’indie è un modo di fare musica po’ più di pancia, mi arriva un po’ più sporco ma un po’ più vero”
Credi che il fatto che sia diventato un prodotto estremamente mainstream abbia in qualche modo condizionato l’essenza del rap?
“Secondo me la magia dell’hip hop è questa, nel suo essere così duraturo ma sempre di moda: ha due anime, è tutto e il suo contrario. In questo momento è il genere più mainstream, inflazionato, con dei testi imbarazzanti ma allo stesso tempo, all’interno della stessa macroscena, è quello più alternativo, propositivo, sperimentale e anche con dei contenuti notevoli, alle volte molto elevati (e prima Rancore non l’ho citato a caso)”.
“Questa è la sua forza, riesce a decadere ma anche a innalzarsi, ad essere per tutti ma rimanere anche alternativo, a suonare pop/mainstream ma a suonare anche sporco e ribelle; forse è questa una delle sue caratteristiche più forti”
Voi, come scena romana, come vi comportavate rispetto ai modelli che venivano dagli Stati Uniti?
“Noi abbiamo sempre rispettato ciò che veniva da oltreoceano ma provavamo ad incastrarlo come un Lego con la nostra cultura, quindi l’aspetto politico, della ribellione, approfondimento e analisi sociali, o anche della parte più festaiola e divertente, per carità; però senza mai cascare nell’imitazione di una cultura che non era la nostra”.
“Oggi, secondo me, per i miei gusti, è diventato in parte una cosa del genere, perché tutta quell’estetica del macchinone, champagnino, che noi prendevamo per il culo perché sembrava un B-movie o quel filone della commedia all’italiana, poi alla fine è stata presa sul serio”.
“Ormai c’è questa sorta di biglietto da visita: aldilà delle canzoni contano modello dell’auto, modello del Rolex, modello della scarpa, modello del vestito, sponsor, hashtag, è un mondo che non solo è lontano da me e da molti di noi ma è l’esatto opposto, quello che abbiamo preso in giro si è in qualche modo stratificato ed è diventato realtà. Però per fortuna l’hip hop contiene anche un siero di antagonismo a tutto ciò, a volte è quello che prevale, a volte, come in questi ultimi anni, è un po’ Davide contro Golia”
Ora tu hai un’intensa attività da talent scout ed è anche un periodo in cui ci sono diversi giovanissimi che stanno ottenendo un successo enorme, per esempio i tha Supreme, Geolier…tu che opinione ti sei fatto?
“Rispetto a prima, che eravamo 50, ora sono 5mila, quindi non posso conoscerli tutti o avere la stessa opinione su tutti quanti. Alcuni mi piacciono tantissimo, altri li sento così distanti che mi dico ‘ma pensa te, alla fine siamo nello stesso mondo, facciamo lo stesso genere, anche se ognuno lo declina liberamente, giustamente, come meglio crede, però magari sento più vicino un artista indie”.
“Comunque siamo tanti ma fortunatamente c’è tanto spazio sia per farlo che per ascoltarlo, e a volte contiene anime molto distanti; se pensi che c’è stato e in parte ci sarà ancora l’hip hop di destra, pensi proprio che stiamo andando da un’altra parte. Allargandosi proprio il genere, molto di più rispetto ai nostri più ottimistici pensieri, inevitabilmente contiene tutto ma anche tutto il contrario”
“L’Ottavo Re” da un certo punto di vista è un disco molto istruttivo, cosa pensi possa imparare un giovane rapper di oggi ascoltandolo?
“Potrebbe imparare a non pensare troppo a quello che il mercato chiede o chiederebbe, o le etichette vogliono. Perché spesso quel non essere capito agli inizi contiene il seme del nuovo che sta per arrivare e magari farà scuola per tanto tempo”
“L’Ottavo Re” è anche un disco evidentemente nostalgico…
“Essendo una selezione di materiali del passato è inevitabile che questa componente del ricordo affiori. A me la cosa che più dispiace, ma è inevitabile nella vita, è la verginità che hai nell’approcciarti alla musica a quell’età, quando non è ancora un mestiere, anzi tu non hai nessun mestiere”.
“La bellezza, quando diventa una professione, perde quella verginità che è figlia del dubbio, del mistero, del ‘ce la farò, non ce la farò, chissà cosa accadrà, intanto facciamo sto concerto, è un’altra serata’. Anche io, che cerco di rimanere sempre super puro a questo approccio, ora quando faccio un disco o inizio un tour faccio dei calcoli, anche istintivi, inconsci, immediati, che sono chiaramente molto più da professionista strutturato che lo fa da anni, mentre lì non c’era nessun calcolo, eravamo proprio allo strato brado”
Agi