«I versi di un cantautore italiano, Fabrizio de André, raccontano di quartieri malfamati dove “il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” perché troppo impegnato a “scaldar la gente di altri paraggi”», scrive Papa Francesco. E chissà se il grande Faber avrebbe mai immaginato di essere citato, un giorno, da un pontefice. Le parole riportate da Francesco sono quelle di una delle canzoni più celebri di De André, «La città vecchia», il racconto dell’umanità imperfetta e dolente nei vicoli d’angiporto della sua Genova («Se non sono gigli son pur sempre figli / vittime di questo mondo»). Il Papa ricorda quei versi nell’introduzione al libro di Alver Metalli «Quarantena. Diario dalla “peste” in una bidonville argentina» (Edizioni San Paolo), per dire che proprio il racconto del giornalista italo-argentino, i giorni della pandemia vissuta in una delle villas miseria alla periferia di Buenos Aires, «ci fa invece vedere come – attraverso il dono della testimonianza – non ci sia zona, per quanto oscura, dove un raggio del buon Dio non arrivi a riscaldare qualche cuore e illuminare esistenze altrimenti invisibili». Del resto l’anarchico De Andrè, che si ispirò ai Vangeli apocrifi per scrivere l’album «La buona novella», ha dedicato buona parte della sua opera a cantare il dolore di coloro che vivono «in direzione ostinata e contraria», come scriveva nella canzone «Smisurata preghiera», suo testamento spirituale. Quando morì, il suo amico don Andrea Gallo, sacerdote «ribelle» che ha passato la vita fra gli ultimi – tossici, prostitute, malati, miserabili – gli scrisse: «Caro Faber, parli all’uomo, amando l’uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista».
Gian Guido Vecchi, Corriere.it