Ludovico Bessegato regista di Skam Italia: “Vi racconto com’è nata questa serie partita da Oslo”

Ludovico Bessegato regista di Skam Italia: “Vi racconto com’è nata questa serie partita da Oslo”

Ludovico Bessegato, classe 1983, ha 37 anni ed è milanese. Dal 2012 è produttore creativo per Cross Productions ed è l’acclamato regista e sceneggiatore di Skam Italia, serie nata in Norvegia e diventata in breve tempo un fenomeno anche italiano. Fanpage.it lo ha raggiunto telefonicamente per capire com’è partita questa avventura, quali sono i segreti del suo successo e che possibilità ci sono al momento per Skam 5: “Skam non è una serie teen, è una serie che racconta delle persone e delle loro emotività, questo gli ha consentito di non attecchire solo sui giovani e di arrivare oltreoceano”

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Skam Italia è un fenomeno ma sarebbe errato dire nazionale. È un fenomeno mondiale, visto che al momento la tv norvegese NRK ha all’attivo i seguenti remake: il francese Skam France, il tedesco Druck e l’italiano Skam Italia, l’americano Skam Austin, l’olandese Skam NL,  lo spagnolo Skam España, il belga wtFock e stanno arrivando anche altri in Brasile, Polonia, Grecia, Turchia, Portogallo, Perù e Marocco. Fanpage.it ha raggiunto telefonicamente Ludovico Bessegato.

Il regista, sceneggiatore e showrunner di Skam Italia, per farsi spiegare com’è partita l’idea di lanciarsi in un remake italiano e quali sono i segreti da backstage di questa che a tutti gli effetti non sembra semplicemente una serie teen, destinata a fare numero nelle liste della serialità under 20.

Ludovico, come fa Skam a essere una serie transgenerazionale?

Skam non è una serie teen, è una serie vasta e questa secondo me è la differenza con altri prodotti dignitosissimi che puntano a essere solo prodotti per teenager. Skam racconta delle persone, non ha dei canoni specifici e questo gli ha permesso di contagiare età molto diverse tra loro. E non ha confini, tant’è che Skam Italia è stata inserita da Buzzfeed tra le 10 serie non in inglese da vedere, credo possiamo dirci soddisfatti.

Come vi siete avvicinati alla realtà norvegese di Skam?

Io lavoro per Cross Productions da 10 anni e ho seguito molti progetti, come Sirene, Una grande famiglia, Rocco Schiavone e Il Cacciatore. Uno degli editor di Cross, più o meno tre anni fa, ci segnala l’esistenza di questa serie norvegese che stava iniziando ad avere molto successo in tutto il mondo. A quel punto, il produttore Rosario Rinaldo mi ha chiamato e mi ha chiesto di guardare questa serie perché era una figata. Io l’ho vista e in effetti ho subito colto le ragioni legate a quel tipo di successo internazionale.

Quali erano queste ragioni?

Beh, la serie norvegese è a basso budget e ha delle caratteristiche veramente indie. Avevano una troupe di 5 persone, giravano con attori del tutto esordienti, pochissime luci, una grande dose di improvvisazione. E, nonostante questo, mi avevano molto colpito questi tempi lunghi, questi dialoghi pieni di pause, l’inserimento di scene bellissime ma apparentemente non indispensabili alla narrazione. Noi eravamo convinti che i ragazzi avessero una soglia di attenzione molto bassa, che volessero dei contenuti super ritmati, che fossero ormai assuefatti ai linguaggi istantanei di YouTube e Twitter. Skam invece aveva dei tempi quasi da cinema d’autore, era molto poco sdolcinata, i personaggi non parlavano mai d’amore, tutto il prodotto era molto crudo, mi ricordava un po’ La vie d’Adele come tono, quindi mi stupiva che avesse attecchito con quella viralità su un target così giovane.

E quindi che è successo?

A quel punto abbiamo preso i diritti di remake e abbiamo iniziato a lavorare sull’adattamento. Per farlo, siamo stati coinvolti direttamente dalla televisione nazionale norvegese, titolare del format, che ha invitato a Oslo sia me che tutti gli altri autori dei remake delle altre nazioni e ci hanno formato per due giorni sulle linee guida che loro avevano messo a punto. Ce le hanno trasferite, chiedendoci da un lato di mantenere una serie di aspetti e dall’altro di acquisire un metodo che ci consentisse di trovare le nostre verità e le nostre realtà, perché è ovvio che la realtà norvegese è diversa da quella italiana. Hanno altri tipi di scuola, di famiglia e di dinamiche relazionali, quindi noi abbiamo studiato un adattamento che ritraesse al meglio i ragazzi della realtà romana, grazie anche a un casting molto lungo, che è durato quasi 8 mesi.

Quali erano gli aspetti da mantenere?

Tra i principali c’era quello di non fare molta comunicazione, di non fare conferenze stampa, di non fare lanci, di non diffondere materiali di supporto, e lasciare che in una prima fase perlomeno il prodotto si diffondesse spontaneamente tra i ragazzi, che dovevano scoprire questa cosa e raccontarsela attraverso il passaparola. Un modello rischioso, perché poi all’inizio può essere frustrante realizzare una serie che non viene pubblicizzata in alcun modo. Tim Vision e Cross hanno avuto pazienza e la verità è che senza un euro di investimento in comunicazione e promozione è lentamente esplosa fino a diventare il fenomeno che è oggi.

Anche la connotazione temporale che accompagna le storie dei protagonisti, con data e orario collocati in specifici blocchi, risale al modello norvegese e ha un intento preciso…

Quei blocchi rappresentavano dei frammenti quotidiani che venivano messi a disposizione del pubblico nel giorno e nell’ora che appaiono nella scritta. I ragazzi, così, monitoravano continuamente il sito per capire quando sarebbero usciti gli altri perché non c’era una reale programmazione delle uscite. Era per restituire una fruizione in tempo reale della vita del singolo personaggio e poi, soltanto alla fine della settimana, questi frammenti diventavano un episodio compiuto da 30 minuti.

Altro aspetto: la centralità di app e social, con la comunicazione non verbale delle emoticon e in remoto con chat e note vocali.

È semplicemente essere attuali nel modo in cui si raccontano le cose, non deve essere per forza collegato ai teen. Oggi raccontare qualunque tipo di storia prescindendo da whatsapp o instagram è folle. Sarebbe come fare un film negli anni 90 in cui la gente non usa i telefoni. Comunichiamo tutti con lo smartphone, è parte integrante a qualunque età. In Skam semplicemente si dà ampio spazio a questo aspetto, forse superando lo snobismo di chi non traduce questa realtà digitalizzata per come è davvero. Anzi, ti dirò di più, secondo me spesso si fanno delle serie ambientate negli anni 80 o 90 proprio per trovare una giustificazione narrativa che motivi l’assenza di questi strumenti.

C’è anche un comunicazione più ‘tradizionale’, dialogica, che è quella con lo psicologo della scuola, il dott. Spera. Lui esercita in un’aula dismessa, quasi a significare che il suo ruolo sia marginale quando invece non è così.

Sì perché tra i ragazzi c’è sempre un po’ l’idea che andare dallo psicologo sia un segno di debolezza e infatti il punto è non guardare le apparenze perché quell’uomo strano, con la forfora, che sta nello scantinato a mangiare sedano, alla fine è una persona fantastica e tante volte magari da lui si può imparare pure qualcosa, soprattutto nei momenti di crisi.

Centrale in Skam 4 è Sana. Una storia di forte attualità, che ha fornito lo spunto per guardare al concetto di ‘diversità’ in vari modi. Non a caso, lei condivide la sua crisi con Martino, vittima di un’altra forma di discriminazione, di natura omofoba.

Nel caso dell’amicizia tra Sana e Martino era interessante il presupposto iniziale. In generale si può dire che per i musulmani ci sia una certa diffidenza verso l’omosessualità, che in quelli più estremisti, se ragioniamo su livelli stereotipati, si traduce in una vera e propria ostilità. Personalmente, tra coloro che ho frequentato non ho assolutamente visto questo e anche in Sumaya Abdel Qader (esponente della comunità femminile musulmana in Italia e consulente alla sceneggiatura di SKAM ho riscontrato una decisa apertura e curiosità verso il mondo Lgbt. Molte delle ragazze che ho conosciuto con il velo mi ha raccontato di avere uno o più amici gay, quindi in realtà è un tipo di amicizia che non è così impossibile. Per cui, partendo da questo presupposto di possibile incompatibilità, queste due persone era interessante farle interagire in modo che scoprissero di avere più cose in comune di tutti gli altri.

Sumaya, nello specifico, cosa ha potuto insegnare a Beatrice Bruschi?

Sicuramente ad avere uno sguardo, che è quello di una donna emancipata, femminista, progressista e allo stesso tempo estremamente credente. Beatrice ha potuto constatarlo in Sumaya e nelle sue figlie di 15 e 16 anni, tra l’altro una delle quali porta il velo e l’altra no, passando del tempo con loro per confrontarsi e poter argomentare rispetto i propri dubbi. È stato un lavoro fatto di profonda osservazione, nella loro casa e quotidianità, e Beatrice è diventata loro amica, ha conosciuto la loro comitiva, è uscita a mangiare la pizza con i loro amici musulmani e ha avuto anche più di un’occasione per partecipare alle riunioni di preghiera. Le figlie di Sumaya poi le hanno insegnato diverse tradizioni, le hanno mostrato veli di vari colori e consigliato modi alternativi per indossarli, tra loro si è sviluppato via via un rapporto decisivo per la formulazione del ruolo di Sana.

Modi alternativi di indossare un velo che ha tanti significati. Cos’è il velo per Sana?

Il velo per Sana è una scelta, non un’imposizione. I capelli per le donne musulmane sono una zona intima, come per le donne occidentali può essere il seno ad esempio, e come tale la trattano, sviluppando ognuna la propria forma di pudore.

Ed è una scelta femminista, perché?

Perché scegliere di portare il velo, per come me l’ha spiegato Sumaya, sempre che sia una scelta arbitraria, significa sentirsi libere da pregiudizi e discriminazioni. Scegliere di coprire una parte del proprio corpo perché questo corrisponde a un proprio senso del pudore o a un credo personale significa sottrarsi al peso delle critiche e, quindi, autodeterminarsi. Cosa è questo se non un gesto femminista? Cioè, noi non possiamo dire che le donne devono essere libere e poi voler entrare nel merito delle loro scelte.

Un po’ quello che è successo con la scelta di Silvia Romano.

Assolutamente sì. Nessuno conosce i reali motivi della sua decisione, per cui se è stata presa in totale autonomia non dovrebbe far altro che renderci felici per lei. Sono sicuro che adesso che è in Italia avrà modo di esplorare maggiormente questa parte e rifletterci ma in ogni caso restano affari suoi. Inaccettabile è insultarla, alzare il tono o permettersi di giudicarla. Di sicuro, troverà la sua strada perché finalmente è tornata a vivere in un Paese libero.

Personalmente credo che la cosa più stupida sia stata utilizzare il dissenso verso le sue scelte per invalidare la valenza della sua liberazione. No?

Certo, non è che se una persona ha bisogno di un intervento al cuore, che serve per salvargli la vita, si indaga sulle sue idee per capire quanto sia giusto intervenire. Per fortuna lo Stato decide di operare solo in base alla tutela della salute, che è un diritto a prescindere dalle convinzioni individuali.

Il rapporto tra Sana e Malik in Skam 4 rappresenta due facce della stessa medaglia. Nodale è la fede musulmana, solo che lei ha forte aderenza e lui non più. Due mondi che vanno in collisione, attraendosi di continuo.

La verità è che se anche Malik fosse stato musulmano praticante, non avrebbero fatto un percorso molto diverso. Sana è molto credente e avrebbe comunque aspettato il matrimonio per consumare il rapporto, come d’altronde dovrebbero fare anche fare i cattolici, visto che l’atto sessuale dovrebbe essere contemplato solo se finalizzato alla procreazione. In realtà, sia Sana che Malik sono due mondi meno monolitici di come sembrano, nel senso che lui si è allontanato dall’Islam ma ha dei dubbi, mentre lei è più convinta della sua scelta ma si troverà di fronte a un grande paradosso. Il paradosso è: cosa succede se incontri una persona che incarna tutti i valori essenziali del buon musulmano, cioè la gentilezza, l’empatia, l’onestà, la purezza, l’altruismo, ma non si professa, di fatto, musulmano, quando invece la maggior parte dei musulmani che conosci, beve, fuma e si intrattiene sessualmente con persone di cui non gli importa niente? Sana si trova di fronte una delle più grandi contraddizioni che la sua religione poteva imporre alla sua attenzione.

Contraddizioni che stimolano continue domande, alle quali Sana tenta di rispondere consultando Google.

È una stagione di risposte difficili. Sono situazioni molto complicate, che di conseguenza mi hanno messo in una posizione scomoda, nella quale ho preferito eludere certe risposte. Ho potuto raccontare che entrambi, pur avendo delle posizioni inconciliabili, hanno voluto esplorare il più possibile il campo dell’altro e mi sono fermato. Mi viene da pensare che probabilmente uno dei due farà un passo verso l’altro: che sia Malik a riavvicinarsi alla sua religione o Sana a prenderne distanza non mi interessava specificarlo, che ognuno immagini lo scenario che vuole a riguardo.

Ludovico, con questi numeri e questo successo, possiamo ipotizzare che Skam 5 si farà?

Ti posso dire che in questo momento non è una cosa a cui sto pensando perché voglio godermi l’uscita di questa quarta stagione, che è stata molto lunga ed è stata messa a dura prova anche dal Covid nella sua chiusura. Adesso voglio un attimo stoppare la testa, sedermi sul divano e godermi questa cosa con chi l’ha realizzata con me. Poi fra poco capiremo, anche perché non dipende da noi. Ci sono tante cose che devono allinearsi, prima di tutto in questo momento tornare a parlare di ripartire su un set è utopia, non è semplice capire se e quando potremo tornare a girare. Poi ci sono i percorsi personali degli attori, ci sono Netflix, Tim e Cross Productions, ci sono i norvegesi, ci sono tante realtà molto grosse che devono parlarsi e capirsi. E soprattutto deve succedere una cosa che ancora non è successa: ce lo devono chiedere.


Eleonora D’Amore, Fanpage.it

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