“Al compleanno numero 75 pensavo sarei arrivato un po’ acciaccato, con qualche problema di salute. Invece sto benissimo, solo che c’è il coronavirus. Avrei preso per matto chi mi avesse detto di una cosa così”. E così Bobby Solo, uno dei cantanti italiani più popolari fin dagli anni Sessanta, una metà della versione italiana di Elvis Presley (quella melodica, l’altra metà era Little Tony), il 18 marzo festeggia i tre quarti di secolo in casa: la moglie Tracy, il figlio Ryan di 7 anni e una tortina “e la spesa per 25 giorni appena fatta al supermarket assieme a un vicino molto gentile. Aspetterò anche la fine di questa storia”.
Con molta calma sembra.
“Sono tutt’altro che pessimista in generale, anzi l’ottimismo mi ha sempre contraddistinto. Stavolta sono realista. Anche perché pratico Chi Kung e i cinque riti tibetani, corro sul tapis roulant per mezz’ora, sollevo pesi. Il fisico c’è e la mente pure”.
E la voglia di fare bilanci della propria vita?
“Eccome! Anche perché è un bilancio magnifico: il pubblico mi ha sostenuto per 56 anni, con qualche alto e basso, dovuto un po’ al cambiamento di gusti ma soprattutto a una incapacità gestionale mia. Sa, papà amava Mario Del Monaco, Beethoven, Mozart, non mi ha mai assistito nella carriera e io ho cercato la figura paterna in procuratori che a volte hanno fatto più il proprio interesse che il loro. Ma non rinnego nulla, non ho rimpianti e anzi ho tanti progetti per il futuro”.
Ce li racconta, prima di tuffarci nel passato?
“Un vinile dedicato a Johnny Cash, poi con Antonio Salvati un album che spero esca presto in cui abbiamo preso una dozzina di classici della canzone napoletana come Torna a Surriento, Anema e core, Luna rossa ma nelle versioni tradotte e cantate da gente come Elvis e Vic Damone e io le interpreto proprio in inglese, stile crooner. Infine avevo un singolo in uscita, Il garage sta andando a fuoco, assieme alla cantante Veronica Marchi, l’ha scritto Varo Venturi, quello di Amore disperato di Nada. Dovevo cantarlo a Porta a Porta, ma il virus ha bloccato anche Vespa, mannaggia. Ah, e infine la biografia Cronache di una lacrima sul viso scritta per Azzurra music da Dario Salvatori. Lì racconto davvero tutto”.
Racconti qualcosa anche a noi, lei è noto per una memoria di ferro. Da dove cominciamo? Dal giovane Roberto Satti che esplode a 19 anni conUna lacrima sul viso e non vince Sanremo solo perché costretto al playback?
“Anzitutto partiamo da papà Bruno Satti, austero ufficiale aeronautico che si fece trasferire da Roma a Milano per correre dietro a questo figlio indiavolato del rock. Minacciò fuoco e fiamme se io avessi usato il cognome per fare quella musica orrenda. Il capo della Ricordi, Vincenzo Micocci, disse a una segretaria: ‘Ok, chiamiamolo all’inglese, Bobby. Solo Bobby’. Lei capì male ed ecco nato Bobby Solo”.
Faceva già musica?
“Avevo imparato su una chitarra di terza mano, facendomi dare lezioni da un falegname. Il patto fu che a ogni topo che gli acchiappavo nella bottega lui mi insegnava un accordo. Trasferitomi a Milano, feci giusto un paio di concerti con un trio dove il batterista era Franz Di Cioccio della Pfm, suonavamo in licei e in circoli del Psi e dell’Unione Donne. Grazie al fratello di un amico riuscii a farmi ricevere alla Ricordi. Anzi, ero in sala d’attesa, c’era una chitarra, strimpellai due canzoni. Micocci mi sentì, uscì dallo studio e mi propose un contratto. Avevo scritto Una lacrima sul viso, che non potei neanche firmare perché ero minorenne. Ma ai soldi non ho mai badato. Pensi che allora la Ricordi mi propose il 2% dei guadagni, ai grandi cantanti dava il 7 o l’8. A me pareva troppo, dissi che bastava l’1. Ma Micocci ribatté: ‘Sarebbe corruzione di minore’ e lasciò il 2″.
Arriviamo a quel Sanremo, 1964. Andò e trionfò. O quasi.
“Feci uno degli incontri della mia vita, Little Tony, che mi adottò. Al festival ero andato con 10mila lire della mamma, dovevo farmele bastare. Lui mi prese, mi portò nei ristoranti e anche al night. Avevo 19 anni, mi trovai davanti le prime donne delle mia vita, mi emozionai e sudai moltissimo. Perdipiù alle prove vedevo dal vivo idoli come Paul Anka e Frankie Avalon. Insomma, tra paura e sudore mi beccai una raucedine clamorosa e mi squalificarono perché dovetti cantare in playback”.
Si rifece nel 1965 con Se piangi, se ridi.
“Anche lì, che storia. Giocarono la carta dell’Elvis italiano, quindi mi truccarono pesantemente, come faceva lui. Sotto le telecamere il fondotinta colò e il regista Romolo Siena, crudelmente, fece dei primi piani insititi di questi rivoli nero, sembrava piangessi davvero. A fine esibizione scappai disperato e andai a un ristorante di pesce. A mezzanotte mi vennero a cercare furibondi: avevo vinto e dovevo essere premiato”.
Parliamo di Little Tony, già che l’ha citato: ai tempi dividevate in due l’Italia.
“Tutte balle per fare divertire voi giornalisti e riempire le pagine. La nostra rivalità tra le due anime di Elvis, era perfetta per l’Italia, che ama spaccarsi in fazioni. Grandissimi amici, altroché. Se cantavamo assieme a prendere i soldi mandava me, che ero senza regole e sfrontato. Ricordo ancora un Natale in cui non avevo nessuno accanto: mi invitò e sotto l’albero vidi due chitarre J200 Gibson, proprio quella di Elvis. Pensai ‘guarda che spaccone, due se ne è regalate’. A mezzanotte venne fuori che una era per me”.
Altri grandi incontri della sua vita?
“Beh Tom Jones. Sul finire degli anni Sessanta, mi arrivò una telefonata di un tizio che era a Roma con lui: Tom era ubriaco ma voleva conoscermi. Feci svegliare in fretta mia madre e lo ricevetti. Gli diedi un po’ di gin, lui prese la bottiglia, riempì il bicchiere a raso e bevve d’un fiato. Poi si fumò un sigaro Montecristo, imbracciò la chitarra e cantò Green Green Grass of Home. Giuro, tremavano le pareti di casa dalla voce che aveva. Negli anni Novanta lo intervistò il Tg 1 e gli chiesero se conosceva Vasco, Ramazzotti o altri italiani. Lui rispose: ‘Pavarotti e Bobby Solo'”.
Altri?
“Dopo Una lacrima sul viso tornai a Milano e andai a cenare al Dollaro, un ristorante famoso anche per essere aperto tutta notte. Il cameriere mi fece mille complimenti e mi disse che anche lui voleva fare il cantante e diventare famoso. Si chiamava Albano Carrisi. E poi Lucio Dalla”.
Che successe?
“Mi portò a una battuta di pesca in Sardegna, poi la sera andammo da Gianni Morandi che aveva una villa lì. Ci ubriacammo in un modo da vergognarci e alle tre di notte, nella totale incoscienza, ci mettemmo a schitarrare e sul colpo nacque Domenica d’agosto. Che è anche di Lucio, benché non l’abbia firmata”.
Poi però cambiò tutto e di lei non si ricordò più nessuno.
“Scelte sbagliate, come le dicevo. Ad esempio mollai la Ricordi, cedendo però tutti i diritti. Aprii uno studio di registrazione, il Chantalain, i nomi dei primi due figli. Ci incisero artisti come Emerson Lake e Palmer, Raffaella Carrà e i Napoli centrale, che registravano dalle 9 alle 19 ogni giorno. Il fonico dopo due o tre sessioni svenne e per il disco Mattanza James Senese mi obbligò a prenderne il posto. Mai fatto, ero terrorizzato. Beh il disco vinse il premio come miglior arrangiamento dell’anno”.
Come tornò al successo?
“Un po’ grazie al revival lanciato da Mike Bongiorno e Red Ronnie, due a cui devo tantissimo. Ma il primo colpo fu nel 1978, due milioni e mezzo di dischi in Francia con una versione disco new wave di Una lacrima sul viso cantata in inglese. La provammo al club Le coeur samba di Parigi: d’improvviso tutti si buttarono in pista. Incassai solo 33 milioni di lire di royalty perché anche lì avevo un contratto capestro. Prima cosa, andai nel negozio che vendeva capi di abbigliamento firmati dal grande rocker Johnny Hallyday: un paio di stivali di lucertola, uno di coccodrillo, uno di pitone e uno normale, più due camicie alla texana. 10 milioni se ne andarono così”.
Si è divertito nella vita, eh?
“Ho speso e straspeso, non mi sono negato niente, ma sono diventato formichina dopo aver sposato la mia attuale moglie, Tracy”.
Che l’ha reso padre di Ryan a 68 anni.
“Un’emozione clamorosa e dire che di figli ne avevo già quattro, più otto nipoti. Quasi una seconda chance: quando nacque Alain, il primogenito, avevo 23 anni, non ero preparato, fui un padre immaturo. Ora con Ryan ho l’ossessione del nonno e la tenerezza del babbo. Lui ama suonare le chitarre giocattolo e fa la mossa alla Elvis come il papà. E quando mi vede in televisione, in qualche vecchio filmato Rai in bianco e nero dice ‘this is the old daddy’, mentre quando sono a colori, accanto a lui, sono ‘the new daddy'”.
Rimpianti riesce ad averne, con una vita così?
“Uno. Nel 1964 mi combinarono un provino a New York, avrei potuto sfondare anche negli States, magari chissà conoscere anche Elvis di persona. Ma al momento di suonare davanti al manager me la feci sotto in senso pressoché letterale e scappai scendendo per quelle scale di emergenza che ci sono sempre nel retro dei palazzi americani: venti piani così, di corsa, col manager dietro. Ogni tanto ci ripenso e ripenso a quando Claudio Villa mi disse: ‘A Robe’, si nascevi in America diventavi qualcuno’. Non ho ancora capito se intendesse che non ero nessuno o che sarei davvero potuto essere un gigante. Vabbeh me la sono comunque divertita abbastanza, questa vita. E mica ho ancora finito”.
Luigi Bolognini, Repubblica.it