Il cantautore parte in tour per portare in giro il nuovo disco, ‘Il cammino dell’anima’, dedicato a Ildegarda di Bingen, mistica medievale tedesca, scienziata, filosofa, teologa, drammaturga, scrittrice, pittrice: “Il profumo del legno del violino mi fece innamorare subito. Poi arrivarono i poeti”
Il cespo di capelli ora incanutito, il violino, soprattutto una cultura sterminata di poeti, filosofi, menestrelli rinascimentali, teologi trasposta in canzoni: la più popolare è un canto pasquale ebraico, Chad Gaya, che nel riadattamento diventa Alla fiera dell’Est, una filastrocca indimenticabile col toro che bevve l’acqua che spense il fuoco che bruciò il bastone che picchiò il cane che morse il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò.
Passano gli anni e Angelo Branduardi ne ha compiuti 70 da pochi giorni ma resta sempre se stesso, ed è probabilmente il complimento più bello che si possa fare a questo cantautore non raro, ma proprio unico. Che ora si lancia in un nuovo tour che toccherà tutta l’Italia legato al disco Il cammino dell’anima, dedicato a Ildegarda di Bingen, mistica medievale tedesca, scienziata, filosofa, teologa, drammaturga, scrittrice, pittrice. “E musicista: mi ha molto toccato che nell’anno Mille una donna scrivesse musica. Parte di queste melodie erano esoteriche e che questo si poteva sottolineare attraverso accorgimenti musicali, ossia con l’impiego della musica verticale, che a quei tempi non c’era, delle sue armonie, delle progressioni. Ho cercato di costruire una suite che avesse un suo inizio e una sua fine musicale, con un preludio e una coda, come si usava una volta. E sarà questa la prima parte dei concerti, per poi passare a tutto il resto del mio repertorio. La scaletta sarà in gran parte obbligata, perché se non suonassi Alla fiera dell’Est, La pulce d’acqua, Confessioni di un malandrino e tante altre canzoni mi dovrei asserragliare nei camerini. Invece così la gente esce felice. E a che altro serve la musica?”.
I 70 anni, come tutti i compleanni con lo zero in fondo, sono l’occasione per fare bilanci. I suoi quali sono?
“Non ne ho, odio fare bilanci, perché vorrebbe dire che la vita si sta avvicinando alla fine, in senso anagrafico e artistico. Invece io non solo sto benissimo ma ho ancora parecchie cose da fare, un lungo cammino che non sarà un’autostrada, ma neanche una viuzza di campagna. I dischi non si vendono più ma io faccio quel che mi pare, riempio i teatri, la gente mi conosce e mi ama. Insomma, se mi guardo indietro sono contento. Ma un bilancio lo farò solo dopo che avrò diretto l’opera Tristano e Isotta, cioè mai. Quindi preferisco guardare avanti”.
Torni a guardare indietro, per un po’, perché una chiacchiera con lei è sempre un’occasione per ricostruire una vita speciale. A cominciare dalla nascita a Cuggiono, il che per molti fa di lei un cantante milanese.
“E invece io sono genovese, cioè tale mi sento, a Cuggiono stava mia nonna materna, contadina, io sono nato in una grande fattoria di quelle di una volta. Ma a tre mesi ero già a Genova e lì ho vissuto una fantastica gioventù nel famoso angiporto, i vicoli eternati da De André, zeppi di personaggi bizzarri e irregolari. Per le scuole materne il Comune usava il metodo Montessori, che stimola i bambini a scoprire il talento artistico. Un pianoforte non lo potevamo avere e il papà mi portò da un maestro di violino, Augusto Silvestri, l’uomo che mi ha cambiato la vita aprendo davanti a me una magica scatola dove dentro c’era questo meraviglioso strumento, lucente, profumato di legno, fu amore a prima vista”.
L’altro incontro fondamentale della sua vita è stato col poeta Franco Fortini.
“Era mio professore alla Statale di Milano, mio maestro, un grande amico. Con un piccolo gruppo di studenti andavamo ogni pomeriggio a casa sua e lui ci faceva scoprire la poesia. Pendevamo dalle sue labbra. Grazie a lui un pomeriggio conobbi Pasolini”.
Che ricordi ha di quell’incontro?
“Si capiva il tormento umano interiore. Fortini gli fece leggere alcune poesie dialettali in friulano, mi colpirono molto”.
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