Dakota Fanning: «Elogio della normalità»

Dakota Fanning: «Elogio della normalità»

Speciale fin da bambina (a sette anni il primo film da protagonista), a lei preme soprattutto raggiungere obiettivi comuni: laurearsi, vivere lontano dai riflettori e imparare a dire addio

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«Sto finendo l’università, ma non mi chieda quando penso di concludere gli esami.

Dare una data precisa potrebbe portarmi sfortuna». C’è chi sacrificherebbe la propria vita per diventare un’attrice famosa.

Ma chi già lo è, famoso, e praticamente da sempre, ha il miraggio di qualcosa di normale. Come una laurea in discipline umanistiche. Dakota Fanning ha 25 anni e ha girato 40 film, insieme a una sfilza di serie tv: trovare il tempo di aprire un libro e concentrarsi è un’impresa degna di nota.

Ma la fa stare con i piedi per terra. «Ho sempre studiato sui set dei film, un insegnante mi seguiva ovunque andassi e mi faceva lezione per tre ore al giorno. Ora sto frequentando la Dalton School di New York, l’ho scelta perché posso lavorare in modo indipendente. Faccio gli esami per iscritto e posso interpellare il mio insegnante ovunque mi trovi, al telefono o via mail».

Porta in giro per la hall dell’albergo un ingombrante abito da sera color champagne con la semplicità con cui gli altri indosserebbero il proprio pigiama. A sette anni Dakota era già sul set con Sean Penn, a dieci condivideva la scena con Denzel Washington in Man on Fire e, solo un anno dopo, Tom Cruise e Steven Spielberg l’hanno voluta in La guerra dei mondi. Poi è arrivato il resto, fra cui tre episodi della saga Twilight. «Non ricordo molto del tempo in cui la gente non sapeva chi fossi», ha detto al Guardian, «ma crescendo realizzi quanto strana sia la fama: se la ottieni, non vuoi che si sappia niente di chi sei». Un sorriso mi ricorderà queste parole ogni volta che cercherò di conoscerla un po’ di più.

«Se c’è qualcosa in cui non sono perfetta? In molte cose», dice difendendosi. «Avrei voluto essere più brava a cantare. E mia sorella scrive storie migliori delle mie, mi sarebbe piaciuto avere quel talento. Per fortuna non sono troppo dura con me stessa».

Breve riassunto. Heather Joy, tennista professionista, e Steve, giocatore di baseball convertito a commerciante, assecondano il talento della figlia portandola dalla Georgia a Los Angeles per fare provini, all’età di cinque anni. Senza troppe ansie, dicendo a tutti «vediamo come va, magari fra poco si torna a Conyers». E invece il destino ha voluto che le attrici in casa diventassero due: Elle, quattro anni più giovane di Dakota, ha seguito le orme della sorella.

Dopo un’adolescenza trascorsa in famiglia, a 17 anni Dakota si è trasferita a New York, da sola. Uno strappo che forse le ha anche causato l’ansia di cui ha ammesso di soffrire qualche tempo fa (ma su cui non torna più).

Il salto le è valso la prima regia, con il corto Hello Apartment. «Ho comprato il mio primo appartamento a New York e ho vissuto l’esperienza di creare un ambiente tutto mio, lontano dai genitori e dal nido in cui sono vissuta. Ho voluto raccontare i segni che ti lasci alle spalle». Ora è sul set di The Angel of Darkness, la seconda stagione dell’Alienista, la serie di Tnt che vedremo nel 2020 e in cui sarà ancora Sara Howard, una segretaria nel distretto di polizia nel 1896. Prima però, dal 18 settembre, la vedremo in C’era una volta… a Hollywood, il film di Quentin Tarantino ambientato nella Los Angeles del 1969. Lei è Lynette «Squeaky» Fromme, seguace del culto della Manson Family di Charles Manson (che assassinò Sharon Tate, moglie di Polanski): la donna che nel 1975 tentò di uccidere l’allora presidente Ford.

Partiamo da Tarantino.

«Lavorare con lui è un sogno diventato realtà. Me ne sono innamorata quando ho visto Kill Bill: il personaggio di Uma Thurman è straordinario, forte, unico. Mi ha molto ispirata».

È stata lei a contattare il regista?

«Sapevo che stava facendo un film e, da fan, gli ho scritto. Poi mi ha chiesto di fare un provino e mi ha dato il ruolo di Squeaky. Se leggendo le sue interviste capisci quanto ami il cinema e i film, da vicino è dieci volte tanto. Per farle solo un esempio: sui suoi set non sono ammessi i cellulari, niente distrazioni».

Cosa ricorda della sua prima volta su un set, a distanza di 40 pellicole?

«Il film era Mi chiamo Sam: in precedenza avevo fatto altre piccole cose, ma quella è stata la mia prima vera esperienza su un set. Ero la figlia di Sean Penn, ricordo che mi è piaciuto molto incontrare le stesse persone tutti i giorni, e il fatto che si diventasse tutti amici. Ma ti accorgi dopo di quale è stato l’inizio della tua carriera: in quel momento non sapevo che il successo mi avrebbe portata a un altro film, e poi a un altro ancora».

Che cosa le interessava da bambina?

«Cercare di rendere credibile qualcosa, fingendola. Con Elle lo facevamo tutto il tempo, nel giardino di casa: la mettevo sotto un lenzuolo e fingevo che fosse nella mia pancia. Sapevo che stavo recitando, mi piaceva esplorare situazioni diverse dalla mia, altre personalità intriganti, e non perché non amassi me stessa o quello che facevo. È difficile da descrivere: ciò che ero destinata a fare è parte di chi sono».

Sente di essere speciale?

«Sono normale, come chiunque altro. Se mi chiedesse a chi devo tutto, risponderei in primis ai miei genitori: mi hanno insegnato che la cosa più importante nella vita è essere buoni, fare le cose giuste e trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati. Ho anche ottimi amici. E poi ci sono le persone che ho incontrato sul lavoro: tanti di loro mi hanno sempre supportata, con alcuni ho passato molto tempo».

C’è qualcosa che la fa ribellare?

«Non sento di avere molto a cui ribellarmi. Ho una buona stima di me stessa e, in questo momento, non avverto la presenza di qualcosa che mi possa danneggiare».

Ormai tutti le chiedono di Elle, come sono i vostri rapporti oggi?

«Quando si parla di lavoro non condividiamo molto. Diciamo che so cosa sta girando e dove si trova, ma non entriamo nei dettagli».

Vi è capitato di essere candidate per lo stesso ruolo?

«Invecchiando credo accadrà».

Secondo lei, avete entrambe il «gene del talento»?

«Credo che Elle abbia un percorso diverso dal mio. Lei ha iniziato perché voleva fare la stessa cosa che faceva la sorella e, per coincidenza, le è capitato di interpretare me da giovane. Poi il suo amore per la professione è cresciuto e ha sviluppato una sua identità, separandosi da me. È stato bello vederla creare una sua strada».

La moda le interessa?

«Sono sempre stata una ragazza che ama giocare con i vestiti. E da attrice è parte del lavoro mostrare il tuo senso dello stile: molte persone ti vedono nei film, e non sei tu, non è il tuo modo di parlare, vestire, pettinarti».

La moda, quindi, è mostrare chi sei?

«In un certo senso sì. E cambia di giorno in giorno, io sembro sempre diversa, non ho uno stile fisso, anche se in generale apprezzo i capi classici».

Fa shopping personalmente?

«Sì, lo odio ma lo faccio».

Ha lavorato con artisti immensi, da Sean Penn a Robert De Niro, passando da Denzel Washington. Consigli preziosi che le hanno dato?

«A me colpiscono le persone quando le guardo lavorare, o quando osservo come trattano gli altri. Assorbo molto in quel modo».

Che cosa ha assorbito, da loro?

«Da Sean Penn, con cui ho recitato quando ero molto giovane, ho compreso il senso della presenza: che cosa significa “stare nel momento”. Mi ha fatto lavorare molto con l’improvvisazione, ho dovuto imparare presto a non chiudermi in me stessa, ma a connettermi con chi ho davanti».

È la produttrice e l’interprete di The Bell Jar, tratto dal romanzo semi-autobiografico di Sylvia Plath, che sarà anche l’esordio alla regia di Kirsten Dunst. A che punto siete?

«È difficile parlarne perché ci sono continui cambiamenti. Le dico solo che lo abbiamo scelto perché è un pezzo importante di femminismo e, dopo anni di recitazione, sono entusiasta di sviluppare un progetto tutto mio. Quando passi la vita nelle mani di qualcun altro, tutto quello che cerchi è di avere un po’ di controllo su quello che fai».

Chi sarà nella seconda stagione dell’Alienista?

«Io interpreto sempre Sara Howard, e ne sono lieta perché sono la prima e unica figura femminile che lavora in un distretto di polizia all’epoca, ma con aspirazioni più elevate, che ai tempi erano inimmaginabili per una donna».

Che cosa trova ancora difficile del lavoro di attrice?

«Salutare tutti alla fine delle riprese. Ogni volta, devi lasciare genitori, amici e parenti e adattarti a persone sconosciute. A mano a mano entri in confidenza e, quando ti senti in sintonia, il set è finito: dici addio a tutti e ricominci da capo da un’altra parte».

Che cosa la aiuta?

«Il tempo. Noi esseri umani siamo molto adattabili: basta lasciarci quel momento di aggiustamento e ce la facciamo».

Vanityfair.it

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