The Irishman, l’atteso film di Martin Scorsese, ieri evento di punta alla Festa giunta a metà percorso, è una riflessione malinconica sul tempo che passa. E sulla mortalità. Qualcosa di faustiano che, dopo 24 anni, riunisce Martin Scorsese, Robert de Niro e Joe Pesci intorno alla vita di Frank Sheeran (De Niro), l’«irlandese» reduce dalla Seconda guerra mondiale, che tra il 1949 e il 2000 racconta, tra flashback e slittamenti temporali, amore, fiducia e tradimento tra malavitosi negli Stati Uniti. Un «noir» avvincente, scritto da Steven Zaillan, tratto dal libro L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa (Fazi Editore) di Charles Brandt: su Netflix dal 27 e in sala dal 4 novembre. E c’è la magnifica apparizione di Al Pacino, «starring» Jimmy Hoffa, controverso sindacalista che osteggiò i Kennedy, tenendo testa ai mafiosi con i quali trafficava. Azione, morte e pallottole in 3 ore e passa di rimpatriata tra Marty&Bob. «Io e Bob abbiamo più di settant’anni e abbiamo una percezione diversa della vita», dice Scorsese tra gli applausi. Il Maestro è tornato.
Com’è cambiato il suo sguardo sulla vita?
«Dopo Casino, nel 1995, io e Bob cercavamo qualcosa di speciale. Quando De Niro ha letto il libro di Brandt, l’ha emozionato subito la storia del sicario anziano. La prospettiva? L’età, il corso della vita, il rimorso e la mortalità di noi tutti. Qui c’è la tivù, il mondo che crolla. Ma poi tutto passa. Frank rimane solo e rivive la sua vita».
Circola una malinconia palpabile nel suo film, unita a un senso del religioso
«C’è l’aspetto religioso, nel tentativo di contemplare l’astratto. La malinconia, certo, il protagonista ha tagliato i ponti con la famiglia. Ma il conflitto appartiene al passato. La malinconia è accettazione del fatto che la morte fa parte della vita».
Dei personaggi che descrive, che cosa l’affascina?
«Qualcosa che ho sentito subito, crescendo a New York: il potere, col suo aspetto drammatico. Non c’era bisogno di esaltare criminali come Scarface. Il pubblico chiedeva che il criminale cadesse, con reazione catartica. Qui non occorre: tutto si svolge al passato. Le azioni sono state eseguite, come in ambiente militare. Non miravamo a rendere la storia spettacolare, ma a una narrazione cruda».
Com’è nato il coinvolgimento di Al Pacino, per la prima volta in un suo film?
«Ho conosciuto Al Pacino nel 1970. Insieme dovevamo fare Modigliani, poi abbiamo lasciato stare. Ma il rapporto totale è tra Al e Bob: io sono di passaggio. Loro sono profondamente amici. E hanno sentito che stava succedendo qualcosa di speciale. Erano sempre presenti, anche quando erano stanchi».
Nel film gli effetti digitali ringiovaniscono i due attori.
«Grazie a Netflix, con una tecnologia che ha permesso di spianare le rughe. A Hollywood non mi sarebbe stato concesso, nessuno voleva finanziare questa mia idea di ringiovanire digitalmente Bob e Al. Non volevo che attori giovani li interpretassero: volevo loro, i miei amici».
Si continua a dire che Netflix sia la morte del cinema. Che cosa ne pensa?
«Per vedere i film, prima bisogna farli. Non importa se li vedi in tv o sull’Ipad. Ogni film che ho fatto, è stato un universo a sé. Il mio film sarà in sala, a New York, per 4 settimane: è un buon risultato e ho avuto la massima libertà. Se penso che il mio Re per una notte è stato in sala per 2 settimane soltanto Oggi, le possibilità per il cinema sono infinite. Ma le sale devono sostenere i film anche se i gestori cercano soltanto i fumetti. Non dovrebbe essere così: i nostri giovani credono che quello sia cinema».
Eppure, se si parla di Jimmy Hoffa a un ventenne americano, non sa chi è
«È stato un personaggio notevole. Era un tipo speciale. Eppure il tempo ti spazza via e i sindacati sono scomparsi. Hoffa era nato durante la Grande Depressione e, per quanto i miei genitori mi raccontassero quel periodo, non lo si conosce di prima mano. La bellezza e la malinconia del mio film risiedono nel fatto che il protagonista sa che tutto quel che gli è accaduto non importa più».
Cinzia Romani, Ilgiornale.it