La lady d’autunno del cinema è Juliette Binoche. Ha due film in uscita, il 10 esce La verità di Kore-eda Hirokazu, con cui aprì la Mostra di Venezia, dove Juliette in una gara di bravura condivise il tappeto rosso con l’altra protagonista, Catherine Deneuve; una settimana dopo, Il mio profilo miglioredi Safy Nebbou, che andò al Festival di Berlino. Due film uniti dallo stesso tema: la menzogna. Quelle della Deneuve, che interpreta un’attrice famosa, egocentrica, bugiarda, con un rapporto «malato» e intenso con sua figlia, Juliette Binoche, che ora ricorda: «Ho inseguito io il regista, volevo lavorare con lui. Abbiamo avuto problemi di comunicazione, lui non parla francese ma solo in giapponese, e mi seguiva, gesticolava, mi respirava addosso. Era il suo primo film lontano dal suo paese, in Francia. Dopo un mio pianto liberatorio ci siamo capiti. E Catherine, da piccola era il mio ideale di femminilità. Ci siamo aspettate e ci siamo incontrate».
Poi ci sono le bugie al tempo di Facebook raccontate da Nebbou. Mastroianni diceva di abusare delle bugie, perché fanno soffrire meno le persone che ci sono vicine. E lei, Juliette?
«Io no, al contrario, una verità ferisce meno di una bugia. Dico sempre che mentiamo perché siamo spaventati o non accettiamo quello che siamo».
Quello di Nebbou è un film sulla manipolazione?
«E sull’ambiguità. In una scena un ragazzo su Facebook mi chiede: hai una voce bellissima, così giovanile. Sei sicura di essere maggiorenne? Io sono Claire, una donna piuttosto sofisticata di 50 anni, docente di Letteratura. Vengo lasciata da mio marito per mia nipote: si scoprirà che è la bella ragazza di cui assumo il profilo su Facebook, postandone la foto, spacciandomi per lei».
Nel film ha flirt con due giovani?
«Che sono amici tra loro. Uno dei due è stato mio figlio in un mio vecchio film e aveva un po’ di imbarazzo. Per Claire, il mio personaggio, quelle erano relazioni pericolose ma importanti, lei ci credeva».
La sua conoscenza dei social network?
«Mi sono immersa in un mondo che non mi è familiare. Uso solo Instagram, condivido poesie, foto, o le mie preoccupazioni».
Hanno cambiato il modo di relazionarsi…
«Sì, ed è presto per capire quali saranno le conseguenze».
Com’è possibile che Claire, una donna adulta…
«Una professoressa all’università possa d’un colpo utilizzare il suo cellulare come se fosse un’adolescente? Succede, conosco donne così. L’abbandono è la causa che scatena la sua perdita d’identità».
E’ una donna tradita che vuole rinascere?
«Tradita e umiliata. Si vuole rimettere in gioco cercando di entrare in una nuova vita, che non è la sua. Seduce come una anti-eroina, una donna immaginaria. L’alter ego del profilo fake è la sua arma segreta ma anche il suo nemico. Verrà risucchiata come una teen-ager. E’ l’ignoto che accende curiosità, tendiamo a credere a quello che vogliamo credere».
L’abbandono è un tema disperante…
«Solo quando tocca il fondo, Claire ha consapevolezza di sé; riempie il vuoto col desiderio, e a quel punto non si preoccupa più dei capelli grigi. È un gioco a nascondersi. Alla fine si libererà delle sue paure. Il regista si vede che ha messo in scena Bergman, ma non poteva sapere cosa dovevo provare dentro di me. Una donna con cui si possono identificare anche gli uomini, mio padre ha 85 anni ed è ancora lì che flirta. Claire è intellettualmente emancipata, emotivamente non lo è. È un film sulla solitudine come appare oggi, sull’immenso immaginario virtuale della rete, su un nuovo modo di produrre sensazioni, dove realtà e fiction si sovrappongono. È la prima volta che faccio i conti in modo così diretto con una donna della mia età».
Com’è stato?
«Alla fine non vedevo l’ora dell’ultimo ciak! Volevamo fare un film pericoloso e senza paura. La vita non si ferma a 50 anni, la pelle cambia ma la vitalità rimane. Quando la giovinezza lascia il corpo c’è qualcos’altro che prende il suo posto, altri valori. Safy Nebbou è affascinato dal mondo femminile, anche se non è sicuro di capirlo fino in fondo».
Quando ripensa alla sua carriera, come la giudica?
«Non mi guardo indietro, vivo il presente, esploro. E rido spesso».
Valerio Cappelli, Corriere.it