Le attrici sono state le protagoniste di interviste-confessioni con il vicedirettore Malcom Pagani.
C’è stato un luogo, al Lido di Venezia, dove tre donne, tre attrici, tre madri del cinema italiano – Sarah Felberbaum, Anna Foglietta e Micaela Ramazzotti – per un’ora non hanno avuto più segreti: la Campari Lounge, alla 76esima edizione della Mostra, con Vanity Fair Stage, sbarcato in Laguna per la prima volta.
Intervistate dal vicedirettore, Malcom Pagani, si sono «date» a nostri 50 selezionati lettori. Raccontando che cosa hanno imparato (finora) dalle loro esistenze.
SARAH FELBERBAUM
«Ho avuto la fortuna di avere mamma e papà appassionati di fotografia: la prima immagine che esiste di me ero sulla bilancia, appena partorita, quindi apprezzo l’arte del riprendere qualcuno, osservarne i piccoli dettagli degli esseri umani».
«Ho una voce cattiva, dentro, la sento da quando sono piccola, mi butta giù, dice: “Non ce la farai mai”. Di solito il primo giorno di set si fa viva in modo più importante. Mi convince che non sto bene. Dice: “Ti sopravvaluti. Non meriti quel posto lì”. Negli anni poi sono riuscita però anche a ignorarla».
«Una volta sono diventata piccolissima, al provino con Toni Servillo. Ero emozionata. Entro nella stanza. “Buongiorno, come va?”, gli chiedo. “Di merda, oggi mi rode il culo”. E la conversazione è finita là. Volevo scappare».
«Magari in Sudamerica (seguirà il compagno, il calciatore Davide De Rossi, passato dall’AS Roma al Boca Juniors, in Argentina) scriverò un libro».
«Ognuno nella propria esistenza ha la possibilità di entrare in diverse stanze. Se entri in una stanza devi sapere che non puoi entrare nell’altra. Al massimo potrai ascoltare quello che succede, ti arriverà, lo guarderai. Ma non lo vivrai».
«Io sono una che porta molto il lavoro a casa, strascichi emotivi di cui non riesco a liberarmi».
«Ho detto tantissimi no, ma è un lusso a cui devi stare attento: troppi poi li paghi».
«Io mi sono innamorata a un certo punto più che di un film, di una donna, Gena Rowlands. Recita con il corpo. Anche appoggiata a un muro, che fuma una sigaretta, riesce a farmi arrivare quello che sta provando, ed è intenso, diretto, e si fa poco importante la parola. Che tu comunque resti rapito. In modo unico e irripetibile».
«Solo se hai le regole poi puoi evadere, e giocare».
ANNA FOGLIETTA
«Più che alla predisposizione e alla missione, credo all’appartenenza familiare, che sia lei a determinarci. Io a forza di stare in una famiglia di Napoli in cui venivano sempre drammatizzate vita e morte – come il Vesuvio: calma apparente e violenza devastante – sono diventata sensibile a certi temi, conosco il groppo, il peso, lavoro per lasciarmeli alle spalle, per esorcizzarli».
«Vorrei aiutare i miei figli a scoprire il loro shining, insegnare loro a brillare. Che poi significa riconoscere e curare il proprio talento. Incanalarlo».
«Se ti ergi su un piedistallo e non stai immerso nelle strade, non sei più vivo».
«Da bambina avevo questi occhi grandi sulle vite degli altri e li ho conservati. A volte ai matrimoni aiuto le mie amiche a cambiare il pannolino, ad allattare, e mio marito mi dice: pensa ai nostri, di figli, che ne abbiamo già tre, pensa a noi, non pensare a niente. Ma a me non riesce. Una volta ero in un hotel bellissimo a Milano, mi ero svegliata presto, mi affaccio alla finestra e oltre a un paesaggio meraviglioso vedo una mamma con una bambina piccolissima, la teneva al petto, erano le sei del mattino, stava andando a lavorare, non ho smesso un momento per tutta la giornata di pensare a lei, a chi sta peggio di me. E anche adesso che sono a Venezia, in questa giostra meravigliosa voglio ridistribuire la fortuna che ho. Al “ma che ce frega” tipico romano ho reagito: non mi piace, a me me frega eccome. Di tutto, di tutti».
«Fare la maschera in un teatro mi ha tenuto connessa alla realtà: tenevo i bagni puliti, cambiavo la carta igienica e lì ho capito che bisogna rispettare ogni ruolo, che niente è disdicevole quando fai un lavoro molto umile con grande dignità, voglia, sorriso. Così sono contenta dove trovo gli altri scontenti delle proprie cose, anche quando sono fortunate».
«I matrimoni onesti sono difficili. A un certo punto arriva l’insofferenza, l’insoddisfazione nei rapporti, ma io quando guardo i miei zii arrivati alle nozze d’oro e mi emoziono capisco di essere figlia di quell’essere umano lì, che pur credendo nel divorzio nel diritto alla felicità crede ancora in quella roba lì, e quindi mi impegno a mantenerla».
«Trovo la geolocalizzazione uno strumento violentissimo. A 15 anni dissi “Ciao, mamma, vado in Sicilia”, e poi ho preso un treno per andare ad Amsterdam con il mio fidanzatino dell’epoca. Avevo la valigia piena di costumi e ciabattine, un freddo boia. Però è stato un mio altro passo verso l’emancipazione».
«Mia madre va a vedere i miei film al cinema. Se ne sta zitta zitta nel buio ad ascoltare i commenti. E poi se sono piaciuta si presenta: “Sono la mamma di Anna Foglietta”».
«Sarò Nilde Iotti per la Rai, prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, la presidenza della Camera dei deputati. E la storia di lei che mi ha affascinato di più è stata quella che ha avuto con Palmiro Togliatti: di un eros pazzesco. Lui a un certi punto fa un’assemblea con i partigiani, e dice: “Dovete vestirvi in sobrietà, le donne soprattitto, dovete vestire come lei, e la indica in fondo a tutto a tutti, con la moglie in prima fila. Che passione. Spostavano l’aria entrambi, con la pesantezza delle loro parole. Pesantezza come nucleo».
«Come prete, sì. Il mio debutto è stato come prete, in una recita. Accarezzavo i capelli alle signore del pubblico cantando “Ogni mamma è come Maria».
«L’esperienza è ogni giorno aggiungere un pezzo alla nostra coda di pavone. L’obiettivo finale è raggiungere il massimo risultato con il minor sforzo possibile».
«Carlo Verdone ha sintetizzato difetti e virtù, rappresenta tanto in noi romani e italiani, tanto della nostra formazione linguistica: siamo cresciuti parlando con le sue battute, con le sue battute con cui affrontava in maniera comica e malinconica la vita. Leggerezza e poesia»
«Mi piace piangere, non ho vergogna di manifestare le mie emozioni. La vergogna è un sentimento bloccante negativo, che se estremizzato ti porta all’incapacità del vivere».
MICAELA RAMAZZOTTI
«Da piccola vivevo in una casina in cui non avevo la cameretta, e il mio letto era un divano in soggiorno che si tirava su e giù. Però nella camera dei miei c’era un armadio molto bello con dentro uno specchio e io lo aprivo e mi guardavo di profilo poi facevo le facce – arrabbiata, triste – spalancavo la bocca all’improvviso, studiavo quello che la nostra faccia può darci, e mi mettevo a piangere per capire come si faceva, tenevo gli occhi sbarrati aperti per un minuto o due, perché da bambini li abbiamo più forti, meno fragili e le lacrime fanno più fatica. Era il mio segreto, nessuno lo sapeva. Era il mio sipario: a 6 anni mi raccoglievo tra due ante».
«Io ancora adesso dico: “Boh, ma chi sono?”. Ogni anno che passa, ogni minuto, ogni momento noi cambiamo».
«Mi piace la città, avere il quartiere sotto. La campagna. Il mare per me forse è tanto, troppo».
«I miei amici avevano anche tre motorini, io il primo l’ho potuto prendere grazie al film di Pupi Avati».
«A 13 anni, leggo fotoromanzi. Mando una foto per partecipare, e mi prendono. Provino a pochi metri da casa, imbarazzo tremendo. Tutti iniziarono a prendermi in giro, non più solo perché non avevo un seno rinascimentale. Ma per me la parola d’ordine era: indipendenza. Sono andata via di casa molto presto, tra ristoranti in cui facevo la cameriera e le prime comparse».
«Lo ammetto, sì, da ragazza ho rubato. Furti di lieve entità, eh, tipo un labello al supermercato, le bischerate con le amichette».
«Le famiglie, anche quelle che sembrano felici, e magari lo sono, sono tutte disfunzionali. Siamo imperfetti, siamo sbagliati, sbagliamo di continuo.Siamo bandiere ma anche banderuole. E quello che un film, un regista acchiappa di me e che io lascio andare è la mia parte fragile, imperfetta. Non amo le eroine, le felicità forzate e inesistenti».
Lavinia Farnese, Vanity Fair