“In A Silent Way”, un punto di svolta nell’arte di Miles Davis

“In A Silent Way”, un punto di svolta nell’arte di Miles Davis

Il disco della grande rivoluzione. Da qui in poi si comincerà a parlare di jazz-rock, tentativo scottante di unire due mondi per alcuni versi antitetici

Staccate Spotify e YouTube, lasciate perdere ogni tipo di streaming, spegnete il computer. Uscite di casa, recatevi nel primo negozio di dischi minimamente fornito che trovate nella vostra città. Andate nel reparto jazz e mettetevi a scavare tra le copertine degli LP fino a che non ne troverete una sulla quale è stampata la foto di un uomo che guarda verso l’alto con fare intenso e leggermente inquieto. Lo riconoscerete subito, e se non lo riconoscete potrete leggere la scritta sulla parte superiore sinistra “Miles Davis, In A Silent Way”. Compratelo, e godete di avere compiuto un’azione che fa bene alla musica, poi tornate a casa, mettete il vinile sul piatto, sedetevi in poltrona, chiudete il mondo fuori e ascoltate.

La via silenziosa

La foto dice già tutto, sembra che Miles ci stia aspettando per aprirci la porta e accoglierci nel suo mondo silenzioso. Più volte nel corso della sua carriera il nostro aveva indugiato con schizzi atmosferici (uno su tutti la Blues In Green dell’essenziale Kind Of Blue) ma mai era giunto a toccare vertici così alti di astrattismo musicale. In A Silent Way è un vero punto di svolta nell’arte davisiana. Da qualche tempo il musicista è affascinato dalle pulsioni ritmiche del rock; la moglie Betty gli ha aperto le orecchie a questo genere e lui, da famelico sperimentatore e curioso quale è, non ha perso tempo a immergersi dentro la scena dell’epoca, la fine degli anni sessanta. Mai rinuncerebbe al jazz ma capisce che la sua musica ha bisogno di nuovi spunti e colori. Non vuole convertirsi al rock, semmai sente il bisogno impellente di inventare un nuovo linguaggio.

Il grande salto

Con Miles In The Sky (1968) e Filles de Kilimanjaro (1969) il trombettista ha sfiorato quelle pulsioni, nel frattempo ha anche conosciuto Jimi Hendrix e i due accarezzano l’idea di un album congiunto, nell’aria c’è la psichedelia, nuove forme di rock stanno ampliando il tessuto dello stesso, lo stanno rendendo avventuroso, aperto al folk, all’elettronica, al jazz, appunto. Da quel versante della barricata manca però ancora invece un coraggioso tentativo di fusione tra i due linguaggi. Il jazz è seguito da una folta schiera di conservatori che inorridisce al pensiero di un ritmo in 4/4 orfano di swing. Certo il free ha già fatto la sua comparsa, le strutture sono esplose, la libertà la fa da padrona così come il tentativo di rivincita sociale dei musicisti neri tramite una musica urticante e mai accondiscendente. Ma il rock rimane ancora fuori dalla porta. E il suo pubblico, al contrario di quello del jazz, ha le orecchie molto aperte.Così Miles si butta, e lo fa, paradossalmente, con uno dei dischi più rarefatti della sua carriera, in apparenza molto poco rock, con due lunghi medley di venti minuti ciascuno a coprire le facciate.Col senno di poi In A Silent Way si rivela il disco della grande rivoluzione. Da qui in poi si comincerà a parlare di jazz-rock, tentativo scottante di unire due mondi per alcuni versi antitetici. Miles ci riuscirà arrivando alla sublimazione con il successivo Bitches Brew, già però nel disco silenzioso ci sono tutti gli ingredienti.

Shhh/Peaceful

Anzitutto c’è il ritmo, nella prima facciata dell’album il funambolico Tony William viene legato a una figurazione di charleston che tiene il tempo in maniera costante. Niente swing, niente assoli, unicamente il charleston che si muove come un treno lento in una placida mattinata d’estate. Non a caso il pezzo era nato con il titolo di Choo Choo Train, salvo poi mutare in Morning Fast Train From Memphis To Harlem. L’ispirazione ferroviaria si rifà alla tradizione afroamericana del blues, con le due località decisive per lo sviluppo della black music. C’è poi la chitarra elettrica di John McLaughing (che da lì a poco troverà fortuna con la sua Mahavishnu Orchestra), altra novità importantissima che spezza le anguste catene della tradizione jazz. L’inglese McLaughing era in realtà stato ingaggiato da Tony Williams per partecipare al suo nuovo progetto Lifetime (da segnalare assolutamente almeno l’esordio di questi, – Emergency, del 1969 – per capire da dove i King Crimson hanno preso ispirazione per i loro materiali più urticanti). Williams pensa però che sia giusto fare conoscere McLaughlin a Davis. Così, la sera prima dell’inizio delle registrazioni di In a Silent Way, avviene l’incontro. Davis non sa chi sia McLaughing , ma le voci sulla sua estrema bravura e versatilità che gli sono arrivate dall’Inghilterra lo portano a convocarlo immediatamente in studio.

Teo Macero: un regista in musica

18 e 20 febbraio 1969 sono le date delle sessioni di registrazione, due soli giorni, ma intensissimi, con Miles e i suoi a buttare giù melodie, idee, improvvisazioni. Tale materiale viene poi plasmato dal produttore Teo Macero con una tecnica quasi cinematografica. Macero monta frammenti disparati per dargli un senso quasi narrativo. Assembla le idee fino a donare al tessuto sonoro un senso compiuto, con temi, divagazioni e ripetizioni degli stessi. I due lunghi brani di In A Silent Way sono entrambi formati da tre parti strutturate in forma di sonata, con un preludio, uno svolgimento e un finale. Finale che altro non è che la ripetizione dell’inizio. Il sempre insoddisfatto Miles ha già di suo scremato molto materiale dalle sessioni, questo ha portato a un minutaggio risicato che solo l’intervento di taglia, cuci, copia e incolla di Macero hanno portato al risultato. Gli ultimi sei minuti Shh/Peaceful sono infatti i primi sei minuti dello stesso brano ripetuti. Grazie a questo trucco la traccia acquista una struttura anomala e particolare.

Shhh/Peaceful (again)

Non solo sul lavoro di Macero bisogna però concentrarsi mentre seduti comodi in poltrona con le luci basse si assapora lentamente lo svolgersi del lato A di In A Silent Way. Chi conosce il lavoro di Miles fino a quel momento non può non rimanere spiazzato dal tenue incedere del brano, che non è più del tutto jazz ma non è nemmeno rock come solitamente si potrebbe pensare. E’ uno straordinario ibrido nel quale si respira un’atmosfera pacatamente sciamanica e psichedelica, un inaudito non-jazz che è anche un non-rock. Una musica ambigua, che rimane sospesa nell’aria senza che si capisca dove vada a parare, da che parte voglia stare, e per questo trasmette ancora più mistero e fascinazione. L’organo elettrico di Joe Zawinul (mai sentito prima in un disco jazz) prepara il palcoscenico alla tromba del leader che entra dopo un paio di minuti a suonare il minimo indispensabile, ogni nota elusa ha la stessa importanza di quella suonata, suono e silenzio hanno la stesso valore. Poi i pianoforti elettrici a dialogare: Herbie Hancock e Chick Corea che gettano grappoli di note in un dialogo che avrebbe potuto soffocare l’impianto sonoro ma che invece resta essenziale, da non crederci vista la caratura dei due super-musicisti destinati alla storia. Ma Miles ha in mano la direzione, sa dove la sua musica deve andare e tiene salde le redini per impedire che qualcosa strabordi, che avvenga il pur minimo sfaldamento della trama. Tutto deve rimanere in un labile ma solido equilibrio, sennò la costruzione cadrebbe in mille pezzi. In questa costante tensione che non sfocia mai e cova come brace sotto una coltre di carbone c’è tutta la potenza di questa musica.Il brano si fa lentamente più corposo, con le due note reiterate del contrabbassista Dave Holland a marcare il passo. Verso il sesto minuto accade l’inaspettato, uno stacco delle tastiere e un arpeggio di chitarra che mettono a tacere il charleston di Williams e danno inizio alla seconda parte con i due pianoforti elettrici e le svisate blues McLaughing che si ampliano in un assolo. Il sassofonista Wayne Shorter pone il suo sigillo con un emozionante parte di soprano. Poi torna il tema iniziale a dare un senso di continuità.

In A Silent Way/It’s About That Time

Il lato B è di nuovo fatto di due distinte composizioni legate insieme. La prima di Joe Zawinul (che il tastierista di origine austriaca inciderà poi nel suo debutto solista) che viene letteralmente spogliata da Miles fino a lasciarne solo la melodia principale e uno scarno accompagnamento armonico. L’atmosfera qui è pacata e silenziosa come da titolo, la sola melodia eseguita dal leader è uno squarcio di sublime malinconia, la voce della tromba si fa liquida, un reale abbandonarsi al sogno che viene interrotto bruscamente dalla sezione di It’s About That Time, nella quale si fa viva un’altra grande ispirazione del Davis di fine anni ’60: quella per il rhythm’n’blues di campioni quali James Brown e Sly & The Family Stone. La ricetta di Miles fonde tutto e il contrario di tutto.Il trombettista entra in scena dopo diversi minuti con un assolo decisamente aggressivo mentre la batteria di Tony Williams perde il suo aplomb e si fa per la prima volta realmente rockeggiante. Dopo lunghi minuti di continuo scambio di umori si rifà vivo il tema leggiadro di In A Silent Way, ancora una volta a chiudere il cerchio.

Album controverso e seminale

Alla sua uscita In A Silent Way si piazza al 134 posto nella classifica americana di Billboard, diventando il primo album di Davis in quattro anni a entrare in classifica. La critica non fu però altrettanto benevola, la strumentazione elettrica e il mood sperimentale dell’opera generarono non poche controversie presso i critici di jazz. Questi e i critici rock ai tempi dell’uscita dell’album si guardavano bene dallo sconfinare uno nel campo dell’altro e rimanevano fissi nei loro rispettivi confini. In a Silent Way riuscì a cambiare tutto. Chi si occupava di musica rock dovette per forza di cose occuparsi di un disco così rivoluzionario. I critici jazz più chiusi nel loro mondo tacciarono invece l’opera di tradimento. Per fortuna ci pensarono critici illuminati come Lester Bangs a dare a Miles ciò che era di Miles. Bangs descrisse infatti In A Silent Way come “il tipo di album che ti dà fiducia nella musica del futuro. Non è rock and roll, ma non è nemmeno niente di così stereotipato come il jazz. Il disco riunisce in sé praticamente tutte le sperimentazioni messe in atto negli ultimi quattro anni dai musicisti rock, e le unisce al background jazzistico di Davis”.Col tempo, In A Silent Way ha fortunatamente smesso di dividere gli animi arrivando a essere considerato da pubblico e critica come uno dei migliori e più innovativi lavori di Davis. La rivista Blender lo ha definito l’album “un capolavoro di musica proto-ambient”. L’altra rivista Pop Matters disse che le tecniche di montaggio del produttore Teo Macero aiutarono Davis “a far sposare insieme musica e tecnologia” e che In a Silent Way “trascende i generi musicali”. Stylus Magazine definì invece l’album “senza tempo”, confermando la sua influenza su generi come la dance, l’elettronica e il pop. Nel 1998 il compositore americano Bill Laswell de-costruì la musica di InA Silet way nel suo album di remix ambientali Panthalassa: The Music of Miles Davis 1969–1974. Ascoltando questo omaggio ci si rende ancora più conto di quanto la musica di quel periodo fosse in qualche modo profetica, quanto fossero rivoluzionarie e attuali ancora oggi le intuizioni di Miles.

Le sessioni

Per coloro i quali non si accontentassero di restarsene in poltrona ad ascoltare il disco si segnala che nel 2001 sono state pubblicate (in un box di 3 CD) le complete sessioni di “In A Silent Way” contenenti il materiale del disco originale, versioni alternative dei due brani che lo compongono e tutta una serie di registrazioni inedite.

Alcune letture

Per chi fosse interessato ad approfondire le vicende legate a In A Silent way e, in generale, al periodo elettrico di Miles Davis la lettura dei volumi di Gianfranco Salvatore (Miles Davis, Lo sciamano elettrico. 2007, Stampa Alternativa) e di Enrico Merlin e Veniero Rizzardi (Bitches Brew. 2009, Il Saggiatore) è caldamente consigliata. Oltre a questi da non perdere l’autobiografia di Davis (Miles, L’autobiografia. 1989, Minimum Fax) per penetrare il cuore e il linguaggio, spesso colorito, del genio americano.

Da no dimenticare. La versione dei Weather Report.

*Fabio Zuffanti (1968) è un musicista e scrittore genovese. Ha una lunghissima discografia alle spalle, solista e con gruppo quali Finisterre, Maschera di cera e Hostsonaten. Ha pubblicato numerosi libri, l’ultimo dei quali è una biografia di Franco Battiato, La voce del padrone (Arcana). Il suo ultimo album è In/Out.

 

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