Il festival? È stato solo l’inizio: Il traditore è un film che viaggerà a lungo, l’incontro con Marco Bellocchio mi ha reso felice e orgoglioso. Era importante che andasse a Cannes, perché il grande cinema italiano deve esserci e mostrarsi. E ora il premio ce lo sta dando il pubblico riempiendo le sale. Ha incassato 845 mila euro in tre giorni, è scattato un tam tam tra gli spettatori, fa discutere, mi fermano anche giovanissimi per farmi domande su Buscetta e Falcone. Mi fa molta impressione». Pierfrancesco Favino non ha nulla da eccepire alle scelte della giuria di Alejandro González Iñárritu che ha esclusoIl traditore. «Onore ai vincitori e onore anche a noi. Anche a me è capitato di fare il giurato in festival internazionali, so bene che le dinamiche sono complesse. Il nostro lavoro è continuamente soggetto al giudizio altrui, quando si va in un concorso lo si sa in partenza».
Il premio per il miglior attore è andato a Antonio Banderas. Ma dalla giuria ammettono che ci sono state chances per lei… «È un attore che ammiro e trovo molto simpatico. Ha detto che lui ci ha messo quarant’anni a vincere a Cannes. Sono sulla buona strada… Battute a parte, per me vuole dire molto essere arrivato in questa fase della vita e della carriera a interpretare un personaggio complesso come Tommaso Buscetta, affidandomi anima e corpo a Bellocchio».
Agli occhi di Enzo Biagi il grande pentito era un personaggio shakespeariano. È d’accordo? «Completamente. Anche da tragedia greca, un uomo che lotta contro un destino che però si è scelto. Il suo è un percorso tragico, ha costruito il suo mito, si è sceneggiato la vita, ciò che sarebbe rimasto di lui: quello che sappiamo è quello che lui voleva che sapessimo. Il mio sforzo è stato proprio tentare di capire ciò che lui non voleva si sapesse, provare a ipotizzare, muoversi nelle sue contraddizioni di questo racconto. E Marco e gli sceneggiatori sono riusciti a raccontare un aspetto inedito».
Ovvero? «Rifuggendo del tutto alla rappresentazione glamour della mafia e evidenziando invece la ruralità di quel mondo anche cogliendone gli aspetti fisici: gli stomaci gonfi, certe movenze, certe ritualità. Buscetta resta un mistero, Bellocchio è stato capace di scavare dentro una pagina che ha ancora molto da dire. Sono convinto che ne sappiamo ancora molto poco, il ‘boss dei due mondi’ ha portato con sé tantissimo: nelle scene in tribunale, per esempio nel confronto con Pippo Calò c’è l’evidenza che non ha detto tutto».
«Il traditore» è un film civile, ha detto Bellocchio. «Insieme d’autore e popolare, grazie a quel misto di rigore e libertà citato da Maria Fernanda Candido che interpreta mia moglie. Non basta l’intento pedagogico per fare un gran film. Serve quello che nella cerimonia di premiazione di Cannes ha evocato Viggo Mortensen, citando Agnès Varda: per fare buon cinema non si deve mostrare, si deve solo far venire voglia di vedere».
Chiuso il capitolo Buscetta, si apre quello Craxi per «Hammamet» di Gianni Amelio. «Il capitolo Buscetta non è ancora chiuso, il film va il suo viaggio e per me è stato difficile separarmi da un personaggio così carico di sfumature. Di Craxi ci sarà modo di parlare quando sarà il momento. Basti dire che per me è una festa passare da un maestro a un altro, con due sfide uniche. Sono cose che cambiano la vita».
Addirittura? «Sono sincero: l’incontro con Bellocchio ha cambiato il modo di vedere il mestiere. Spero ricapiti di lavorare insieme: generosità, affetto, allegria, forza. Lavorare con maestri così ti fa venire la voglia di diventare come loro.
Stefania Ulivi, Corriere.it