Alla vigilia del tour negli stadi il cantante si racconta in un’intervista a «Vanity Fair», che gli dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 22 maggio. E per la prima volta entra nei dettagli del periodo difficile vissuto due anni fa, quando dovette operarsi alle corde vocali
«Certo che ho avuto paura di non poter tornare a cantare: se la porta dietro chiunque debba subire quel tipo di operazione. Da un lato c’è un esercito di persone a rassicurarti, “lo fanno tutti”, “non ti preoccupare”, “la voce dopo è meglio di prima”. Dall’altro ci sei tu che devi provarlo sulla tua pelle. Devi fidarti, ma la voce è il tuo strumento e quindi ti ripeti: “adesso lo vediamo come va, lo vediamo veramente”».
Alla vigilia di un tour negli stadi d’Italia – prima data Bari, 14 giugno – e a 10 mesi da un compleanno importante («A quanto mi dicono, dovrei compierne 60. So che è una menzogna e per sanarla ho deciso di andare all’anagrafe con una rivoltella. Farò un bel discorso: “I casi sono due, o mi ridate subito indietro gli ultimi 40 o qui finisce male”»). Luciano Ligabue si racconta in un’intervista a Vanity Fair, che gli dedica la copertina del numero in edicola da mercoledì 22 maggio. E per la prima volta entra nei dettagli del periodo difficile vissuto due anni fa, quando dovette operarsi alle corde vocali.
«Partiamo per il tour», ricorda, «e mi viene un’influenza talmente forte da dovere cancellare la prima a Jesolo. Mi curo, ma non passa. Arriva marzo e festeggio il mio compleanno al Forum di Milano dove faccio un concerto bellissimo. “Cazzo”, mi dico, “ne sono uscito”. La mattina dopo sono completamente afono. Ho un’altra serata milanese e dopo aver lavorato con il vocal trainer, faccio una puntura di cortisone e vado in scena. Il Forum è pieno, sono tutti lì per noi e dopo 3 pezzi crollo. Pensavo una nota e me ne usciva un’altra. Immagini la frustrazione. Credo sia stata la peggiore esibizione della mia vita, ma di mollare non me la sentivo. Ho chiesto scusa al pubblico, ho finito il concerto e il giorno dopo mi hanno detto “ti devi operare e devi farlo subito”».
Dei giorni successivi all’intervento ricorda «la sensazione stranissima di non poter parlare. Nella prima settimana comunicavo soltanto con i tablet, e il silenzio di quei giorni non solo non me lo sono scordato, ma non mi è dispiaciuto. C’era un senso di solitudine amplificato, non brutto. Abbiamo bisogno di saper ascoltare noi stessi e gli altri, ma per riuscirci abbiamo bisogno di più tempo e di più silenzio». Quando è iniziata la rieducazione, spiega, «è stato il momento di vincere un po’ di resistenze e di paure. La voce non è solo una corda da far vibrare, ma è anche anima, cuore, psicologia. All’inizio il timore mi ha frenato, poi è successo quello che mi avevano promesso. Ho ritrovato il timbro di ieri e ho risentito me stesso. È incredibile, ma vero. La voce è proprio migliorata».
Nel trattare un bilancio della sua carriera («Sono stato fortunato, e non ho nessun tipo di pudore o vergogna nel dirlo»), Ligabue rimpiange «l’incoscienza del primo anno… Immerso in un mondo che non conoscevo ancora, vivevo quel che accadeva con leggerezza. Dopo magari sono arrivati successi più appaganti, ma quella libertà non l’ho più ritrovata. Il successo può restituirti un’euforia di fondo, ma non rende per forza felici». Anche perché «dà dipendenza. Pensare che ti venga a mancare all’improvviso l’attenzione della gente può creare ansia. Diamo spesso per scontato quello che abbiamo e ci spaventiamo quando pensiamo di perderlo… Credo di avere un patto forte con il pubblico. Ci fidiamo l’uno dell’altro e l’idea che in questo rapporto qualcosa si possa incrinare mi inquieta». E a volte si rimprovera di non regalare abbastanza leggerezza: «Amo le canzoni che non hanno nessun compito se non quello di far cantare qualcuno con concetti che non devono essere per forza pensosi o sofferti. Anche se non ne ho scritte così tante, sono le canzoni che fanno star bene me e quelli che le intonano. Mi pare che alcuni miei “colleghi” se ne sbattono e vivono meglio. Forse per carattere o forse per la radice cattocomunista che mi porto dietro, non riesco a pensare che il mio privilegio sia gratis. Questo bisogno di dare il massimo un po’ di tormenti me li crea».
Luciano Ligabue si definisce timido: «Lo sono sempre stato. Mio padre, un uomo che cambiò tantissimi lavori e proprio come mia madre si fidava della vita, non si capacitava di avere un figlio timido. Quell’eredità, la fiducia nella vita, anche se a metà, è presente. Però io ero introverso e ho sempre avuto un mio mondo». Dice di credere sempre all’amore («L’età non mi ha disilluso sull’amore. Anzi»), confessa uno dei suoi più grandi dolori («Dover ammettere il fallimento del mio primo matrimonio e dover portare avanti non solo quel tipo di dolore, ma anche tutte le implicazioni che sarebbero venute da lì in poi, a patire dalla gestione di un figlio») e spiega perché non smetterà di cantare Balliamo sul mondo: «Avevo detto che non ero sicuro di voler continuare a farla dopo i 50. Poi fortunatamente vedo Mick Jagger sculettare ancora cantando Satisfaction e mi dico che posso andare avanti un po’ anch’io».
Malcom Pagani, Vanity Fair