Delon: la Palma alla carriera non è mia ma dei registi con cui ho lavorato. Sono le donne che mi hanno scoperto, senza di loro non sarei qui
Cannes Oui, je suis Alain Delon. Ovazioni al suo ingresso e durante la cerimonia di consegna della Palma alla carriera. E il divo alla fine crolla tra le lacrime: «Penso a questo come alla fine della mia carriera, alla fine della mia vita». Al braccio della figlia Anouchka che gli ha consegnato il premio d’oro d’onore, l’83 enne attore ha sussurrato quasi invocandole «penso a Mireille e a Romy», riferendosi ai due più grandi amori, Darc e Schneider, tra i tanti della sua esistenza. Prima di ricevere l’onorificenza, il grande attore parla, cita Romy Schneider e Monica Vitti, ricorda, si commuove.
Come quando si rivede in una scena di «Rocco e i suoi fratelli» insieme con Annie Girardot che non c’è più, e piange. Non sarà l’unica volta. «Il mio incontro con Luchino Visconti? Semplice, mi telefonò un agente di cinema, non il mio perché non ne ho mai avuti, e l’ho visto a Londra mentre allestiva “Don Carlo”. Aveva una disciplina ferrea». Aspetto invidiabile per la sua età, l’attore si volta verso lo schermo mentre le immagini al tempo della sua bellezza insolente ritmano le sue parole. Ecco «Delitto in pieno sole» di René Clement. «È un film del 1959, molti di voi non erano ancora nati, come fate a guardarmi come sono ora?». Il carisma, quello c’è tutto. Non vuole parlare delle femministe che lo hanno accusato di machismo, contrarie al premio.
Lui ha fatto notare al quotidiano «Le Figaro» che sono persone in cerca di visibilità: «Chi sono, e perché ora? Non si può contestare una carriera». La Palma è un risarcimento dal Festival del suo Paese, che mai lo ha premiato: «Quando nel ’76 ero in concorso con “Mr. Klein” e non abbiamo vinto nulla, l’ho vissuta come una ingiustizia». Era gollista, il regista Losey era comunista, si parla di collaborazionismo a Parigi durante l’occupazione: «Eppure l’ho prodotto io». Ci fu lo sgarbo del mancato invito, a lui e al suo compagno d’avventure Jean-Paul Belmondo, per la celebrazione dei 50 anni della rassegna. «Io ero il primo violino e sono stato diretto da Karajan, questo riconoscimento non è per me ma per i grandi registi con cui ho lavorato. Altrimenti non lo avrei mai ritirato».
Gli inizi: «Ero un ragazzino annoiato, non conoscevo nessuno, la mia carriera d’attore è stata fortuita. Tornato in Francia dalla guerra d’Indocina, non sapevo cosa fare. Mi fu subito naturale mettermi davanti alla macchina da presa. I registi mi dicevano: non recitare, parlami e ascoltami come stai facendo, sii te stesso. Non ho mai recitato i miei ruoli: li ho vissuti». Hollywood: «Non è la mia tazza di tè, dopo due anni volevo tornare a Parigi». La Nouvelle vague: «Mi aveva messo al bando, ma io sono andato avanti lo stesso. Molti anni dopo, nel ’90, mi prese Godard». Lui produttore: «L’unico modo per fare quello che volevo. Dovevo essere il boss. Ho prodotto 25 film». Il leit motiv sono le donne, ne parla anche se non sollecitato: «Sono le donne che mi hanno scoperto, non sarei qui senza di loro».
Valerio Cappelli, corriere.it