Tornano i racconti che hanno ispirato la storia d’amore gay più famosa di sempre, «Brokeback Mountain». Intanto l’autrice ci confessa la sua più grande paura (che riguarda il nostro pianeta)
La leggenda vuole che una sera, quando ancora abitava nel Wyoming, entrando in un bar la sua attenzione fosse stata attirata da un cowboy di mezza età. Nonostante fosse tutto agghindato per la serata, i suoi vestiti erano logori, gli stivali macchiati. Era magro e slanciato, muscoloso in modo ferino. Se ne stava appoggiato a un muro, gli occhi fissi su alcuni giovani cowboy che giocavano a biliardo. C’era qualcosa, nella sua espressione, una specie di desiderio triste, che le fece pensare che quell’uomo potesse essere omosessuale.
Un cowboy gay.
Annie Proulx è una delle grandi madri della letteratura mondiale con Alice Munro, Joyce Carol Oates, Margaret Atwood, Elena Ferrante, Edna O’Brien, Annie Ernaux. Dopo un Pulitzer (per il romanzo Avviso ai naviganti) e un PEN/Faulkner (la prima donna), a darle vera notorietà è stato un unico racconto, quaranta pagine appena, diventato poi il film I segreti di Brokeback Mountain. Uscito nel 1999 nella raccolta A distanza ravvicinata – Storie del Wyoming, vol. 1, che viene ripubblicata ora da minimum fax (minimum fax, pagg. 350, € 16; trad. A. Sarchi), è tutt’oggi la storia dell’amore tra due uomini più emblematica di tutti i tempi.
Nata nel Connecticut, cresciuta nel New England imparando l’amore per la natura, la caccia, la pesca, Proulx ha cambiato casa almeno quaranta volte seguendo il sole a ovest: «A interessarmi sono i paesaggi – la geologia, l’acqua, le piante, i fiumi e i laghi, le montagne e le coste. Mi muovo per fare esperienza delle diverse parti del Paese e, prima o poi, mi capita di scriverne. Traslocare è faticoso, ma anche eccitante, e poiché porto sempre i miei libri con me non mi sento mai in lutto». Adesso che ha 83 anni, abita nel Northwest Pacific Corner, estremo ovest, nei pressi di Cape Flattery. Digitate questi nomi su Google Images, capirete molte cose.
Il posto in cui vive ora le serve da ispirazione?
«Non mi piace questa parola. Da quando ho emesso il mio primo respiro, ho sempre trovato delle cose che mi interessassero. Penso che la curiosità sia cento volte meglio dell’ispirazione».
Ha pubblicato il suo primo libro di racconti a oltre 50 anni. Diventare scrittrice era un suo sogno?
«Da quando ho 4 anni mi sono sempre definita una “lettrice”. Solo un paio di anni fa, all’ennesima domanda su “che cosa fai?”, ho risposto, con riluttanza, “sì, sono una scrittrice”».
Le sue storie parlano di un mondo maschile: rodei, cowboy. Perché?
«Quando scrivevo di posti rurali, le occupazioni quotidiane coinvolgevano soprattutto gli uomini. Vent’anni fa c’era una divisione della fatica fisica diversa: ora le donne possono fare, e fanno, quasi tutti i lavori dei maschi e ne commettono, anche, tutte le follie. Ma lo ammetto: scrivere di uomini per me era più interessante».
Che cosa ammira nei cowboy e in chi vive in un ranch?
«Forse l’attitudine per cui niente è troppo difficile da sopportare o da sistemare, anche se gli altri fanno fatica a capirlo».
Qual è la più grande tragedia per uno scrittore?
«Non ho mai sofferto del classico “blocco”. Però ci sono dei giorni in cui penso che la tragedia peggiore siano i tagliaerba. Ho quasi sempre vissuto in campagna, e ora che sto in una piccola città la cosa che mi distrae di più è quella sinfonia di traffico, stridio di freni, cani che abbaiano, chiacchiere dei passanti e, soprattutto, tagliaerba, decespugliatori e spazzafoglie dei miei vicini».
Il tempo è sempre un fattore cruciale per chi scrive.
«Non ne ho mai abbastanza per starmene in pace: sono sempre molto coinvolta in progetti di citizen science (attività collegate a ricerche scientifiche a cui partecipano semplici cittadini, ndr)».
Alice Munro, il premo Nobel canadese, ha detto di essere stata una giovane donna «dal cuore duro» nei confronti delle figlie a causa della sua vocazione per la scrittura. Lo è stata anche lei?
«In minima parte, dal momento che ho iniziato a scrivere solo quando i miei quattro figli se ne erano già andati via da casa».
È vero che non avrebbe voluto aver mai scritto Brokeback Mountain?
«Sì. In parte perché non sono a mio agio quando ricevo troppa attenzione, poi perché quella storia ha finito per adombrare tutto il mio lavoro. Penso che altre mie cose fossero migliori».
Tipo? John Updike selezionò il suo racconto Il manzo scuoiato a metà, che si trova nella raccolta in uscita in questi giorni, come uno dei migliori del Novecento. È d’accordo?
«Non ho idea del perché avesse scelto proprio quello. Il mio preferito è Tits-Up in a Ditch (Non c’è più niente da fare, ndr)».
La sua è stata una vita avventurosa: si è sposata, e ha divorziato, tre volte. Ha scoperto che si stava meglio da sole?
«Lo sono quasi sempre stata, felice da sola. Dove vivo ora è pieno di coppie di anziani aggrappati l’una all’altro come se stessero affogando. Da giovane ho avuto molti amori, ma ora ho gli amici non lontani e, per la maggior parte del tempo, preferisco una vita solitaria. Leggo e penso molto, riempio pile di carta senza fine. Persone che amano stare all’aria aperta e che siano anche silenziose non si trovano quasi più oggi, e io non sono il tipo da chiacchiere».
I suoi guilty pleasure?
«Leggere, guardare tv spazzatura e un mucchio di squallide serie olandesi con tanti omicidi».
I luoghi sono la cosa più importante nelle sue storie. Le migrazioni di massa di questi tempi che effetti avranno sulla psiche umana?
«Mi interessano molto le migrazioni. Nonostante gli studi, non si sa bene perché le specie si spostino. Le migrazioni umane di adesso hanno un retrogusto di paura: anche se spesso vengono presentate come persone che fuggono da regimi oppressivi, la verità sta forse nelle pressioni del cambiamento climatico. Estati intollerabili, innalzamento delle acque, difficoltà nel procurarsi il cibo, fanno tutti parte della risposta della Terra all’aumento dei gas serra. Bisognerebbe chiedersi: si inizia a fuggire per salvarsi la vita?».
Che cosa la spaventa di più?
«Forse la perdita del mondo naturale conosciuto da bambina».
Che cosa è la natura per lei?
«La mia consolazione, e anche una fonte costante di dolore».
Come intellettuale, come si rapporta alla presidenza Trump?
«Per fortuna, leggendo molti libri di storia, posso osservarlo come uno dei tanti errori di giudizio dell’umanità. Ci sono stati parecchi Trump nell’ultimo migliaio di anni, e ne avremo altri. È il tipico megalomane dei fumetti che fantastica di governare il mondo. Senza di loro non ci sarebbe bisogno degli uomini forti in calzamaglia».
Avere davanti un orizzonte sconfinato fa differenza quando si scrive?
«Più vedi e conosci, più puoi rimontare tutto nelle tue storie».
Che cosa vede in questo momento dalla sua finestra?
«Tulipani sfioriti, non ti scordar di me, due betulle, un ossidendro danneggiato dall’inverno e un abbeveratoio per uccelli asciutto».
Laura Pezzino, Vanity Fair