«Rocky è davvero una mia creatura. Accettai invece il ruolo di Rambo dopo il rifiuto di Clint Eastwood. A una condizione: di attenuarne la sete di vendetta. Entrambi mi hanno tenuto compagnia per gran parte della mia esistenza e ora che ho quasi 73 anni posso dire che mi hanno aiutato a essere sempre in forma, fisicamente e spiritualmente». Sylvester Stallone si prepara per Cannes dove nei prossimi giorni presenterà un’anticipazione del quinto episodio di Rambo.
Pronto per una nuova avventura?
«Certo. E, in tempi di supereroi, aggiungo scherzando che non mi dispiacerebbe affatto far andare a braccetto un Rambo della terza età, ancora atletico, con una Wonder Woman. Anche perché io vivo circondato da quattro magnifiche donne: mia moglie Jennifer e le nostre belle figlie Sophie, Sistine e Scarlet. E’ una mia scelta la “s” iniziale dei loro nomi perché si intreccia al mio cognome di orgogliose origini italiane».
Sarà celebrato a Cannes…
«Al Marchais sono spesso andato e mi ha sempre dato grandi soddisfazioni. Mi fa ovviamente piacere festeggiare 50 anni e più del mio lavoro. Avrò l’occasione di affrontare altri argomenti».
Quali?
«Mi sta a cuore il reinserimento nella vita sociale degli uomini che sono andati a combattere per l’America in terre e culture lontane. Poi c’è il tema dei cartelli della droga. Si parla di questo, in una storia ambientata sul confine tra il Messico e la California, nel mio Rambo 5 di cui mostrerò alcuni spezzoni. Poi mi batto da sempre per il controllo delle armi, più che mai necessario nell’America di oggi. Le armi illegali in tutti gli States sono una realtà drammatica, non una difesa dei singoli».
Rambo è stato e resta uno degli eroi preferiti dalla platea americana. Quali sono i suoi?
«Tutti coloro che vanno, spesso ancora ragazzi, a combattere per la patria. Perché non ci sono mai vincitori nelle guerre. Il primo Rambo è uscito nel 1982 e da allora ci sono state altre guerre di potere, di religione, di fanatismo. Scrivendo i miei copioni per la saga ho sempre pensato che nel profondo della sua identità il mio personaggio era e sempre sarebbe stato un pacifista. Soltanto i démoni della natura umana lo distoglievano da una vita tranquilla».
Si considera soprattutto un attore d’azione?
«No, ho sempre cercato di inserire contenuti sociali nei miei film. Con la maturità ho cercato di non essere ossessionato dall’apparenza».
Che cosa deve al cinema?
«Tanto se non tutto. Penso di essere entrato nella storia di Hollywood più per Rocky che non per Rambo, ma una cosa ho sempre cercato con onestà nella mia carriera: reinventarmi per il pubblico. Non voglio trasformare i miei personaggi in una caricatura»
Come vive la maturità?
«Invecchiando acquisti molti valori, diventi capace di meditare. Forse dirò questo a Cannes ricordando che sia nella boxe vera che nella vita quotidiana non ci sono effetti speciali. Io come attore ho conosciuto anche insuccessi…».
Le delusioni aiutano?
«Mi hanno fatto bene: mi hanno insegnato a essere critico con me stesso e a dedicare i miei dieci minuti mattutini di meditazione ai veri valori».
Lei cita spesso il pugilato, non solo a proposito di «Rocky»…
«Per me è un’arte fatta di armonia. Penso a Muhammad Ali»
Perché?
«Il suo viaggio nella vita e sul ring è stato unico, straordinario. Il mio Rocky gli deve molto. Ero un giovane di New York, figlio di un barbiere. Avevo poco denaro e molti sogni quando ho scritto Rocky. E devo molto più di quanto si possa immaginare a Muhammad Alì anche per Rambo».
Giovanna Grassi, Corriere.it