«Avengers: Endgame», tra Signore degli Anelli e Grande Lebowski

«Avengers: Endgame», tra Signore degli Anelli e Grande Lebowski

«Avengers: Endgame» è nelle sale italiane dal 24 aprile. Ultimo capitolo della saga datata 2012, tra citazionismo e presenze multiple riesce a essere un ponte narrativo tra il passato e il futuro dell’universo Marvel

Persino all’anteprima stampa, a Milano, prima che cominciasse il film sul grande schermo è campeggiato l’hashtag #DontSpoilTheEndgame. Niente anticipazioni, ché di leak, su Twitter, ce n’è già stato uno. La pellicola, in sala dal 24 aprile e già con incassi superiori ai 5 milioni di euro, è stata accompagnata da gran riserbo.

Avengers: Endgame, ultimo capitolo della saga cinematografica, ha preso il via laddove Infinity War s’è interrotto. Thanos, la mano guantata dalle sei Gemme dell’Infinito, ha schioccato le dita e posto fine all’esistenza di metà degli esseri umani.

In un lampo, le case si sono svuotate, il rumore è cessato. Intere comunità sono evaporate in un silenzio composto, come quello che deve aver attraversato Pompei la notte in cui il Vesuvio ha eruttato. Gli uomini si sono fatti ceneri e quanti a Thanos sono sopravvissuti si aggirano per la Terra, spettri inquieti di un presente senza futuro.

Sono gli Avengers, il gruppo di Vendicatori Marvel nel quale si agitano (anche) Iron Man, Captain America, la Vedova Nera e Hulk, a dover porre rimedio allo sterminio, sfidando Thanos in un’ultima battaglia. Una battaglia epica, alla «Signore degli Anelli», che, diversamente da quanto sarebbe dato pensare, non occupa che una piccola parte di un film sterminato. Avengers: Endgame dura la bellezza di 181 minuti, ma la guerra, che in sé racchiude l’intero significato della pellicola, è ridotta ad una mezzora. Prima, è tutto un dipanarsi di vicende pseudo-comiche, vissute in un continuo intrecciarsi di presente e passato.

Il film ha il proprio fulcro nei viaggi nel tempo. E questo è quanto può essere detto senza incappare nel famigerato «pericolo spoiler». Senza nulla rivelare, tuttavia, è bene sapere che la trama conta poco. E questo è quanto emerge da una prima visione dell’ultimo Avengers, un film che non è «la fine dei giochi», ma il più riuscito dei crossover. Un calderone usato come ponte tra il passato della Marvel e il suo futuro.

Avengers: Endgame è una corsa a squadre: una staffetta, il cui finale serve a suggellare il passaggio di testimone tra la vecchia guardia e il nuovo corso. In scena, entra di tutto. Il citazionismo cinematografico dei fratelli Anthony e Joe Russo, registi. Le scorie del #MeToo. La promessa di integrare la diversità nell’universo Marvel. Qualche lacrima e pure un Thor versione Grande Lebowski. Agli affezionati del genere, ai puristi, è probabile che il film faccia storcere il naso. Ma chi, invece, dal continuo susseguirsi di effetti cinematografici e battute tragga piacere uscirà dalla sala cinematografica con le orecchie e gli occhi pieni, certo che un’altra avventura ci sarà. Solo, senza i personaggi che si è imparato a conoscere.

Claudia Casiraghi, Vanity Fair

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