L’attore protagonista con Woody Harrelson di «The Highwaymen. L’ultima imboscata» (su Netflix). «Erano banditi, Hollywood li ha trasformati in due miti romantici»
«Ero un ragazzino quando ho visto Gangster Story di Arthur Penn. E l’ho amato molto. Ma il mito romantico di Bonnie & Clyde va sfatato. Erano dei banditi, assassini, rapinavano anche i poveretti, e il film uccise anche la reputazione di Frank Hamer, l’uomo che li catturò. Non a caso la sua vedova fece causa alla produzione. Se il film serve a riabilitarlo, sarò felice». Kevin Costner è il protagonista di The Highwaymen. L’ultima imboscata di Lee Hancock (da oggi su Netflix), costruito intorno all’ex Texas Ranger richiamato in servizio per eliminare la coppia di fuorilegge, colpevoli di rapine e omicidi (compresi quelli di poliziotti) che, nell’America piegata dalla grande depressione, furono considerati novelli Robin Hood. Si tratta di un progetto nato anni fa, pensato per Robert Redford e Paul Newman.
Chi era Hamer?
«Un solitario, cresciuto nel Midwest come un cowboy. Un uomo tranquillo, abituato a combattere. Contro i fuorilegge, contro il Ku Klux Klan. Era un Texas Ranger, usava modi spicci: uccise più persone di Clyde Barrow e Bonnie Parker. Le persone che hanno la capacità di uccidere sono un mondo a sé, da una parte o dall’altra della legge. La nostra fortuna è che fosse dalla parte giusta».
Avete girato nei luoghi veri dell’imboscata del 23 maggio 1934, dopo una caccia all’uomo di cento giorni. La loro macchina fu colpita da 150 proiettili. La scena è impressionante.
«Sì, tutto durò pochissimo e a ogni ciak mi sono chiesto cosa sia passato dalla loro testa. Una scena forte. L’uso delle armi in Usa è legato alla nostra storia, ci piaccia o no. Siamo un Paese giovane, tutto fu perso con la forza, molto più che in Europa, dove peraltro i confini sono segnati con il sangue. Certo le leggi in Usa devono essere inasprite, occorre proibire le armi automatiche. Ma i nostri politici non le faranno, pensano a essere rieletti. Io ho un fucile, non l’userei mai con le persone, ovvio».
Per cosa lo usa?
«Vado a caccia col mio cane, me l’ha insegnato mio padre che l’ha imparato da suo padre. E io ai miei figli, se poi non vorranno andare, liberi di scegliere come in tutto. Per me è il ricordo di momenti belli passati da solo con mio padre in mezzo alla natura».
La leggenda di Bonnie & Clyde si radicò in seguito agli effetti della crisi del 1929.
«Lo so bene, la mia famiglia fu vittima della Depressione come la famiglia di Bonnie. Mio nonno mi raccontò che nel 1933 portò 12 mila dollari in banca alle 11 e l’impiegato non l’avvertì che la banca avrebbe chiuso un’ora dopo. Persero tutto, anche la casa. Fu la storia di tanti, la gente si sentì tradita. I miei nonni lasciarono l’Oklahoma, andarono in California. Mio nonno non si riprese mai, iniziò a bere molto, non è più stato lo stesso. Una specie di Tom Joad di Steinbeck».
«The Highwaymen» è un film revisionista?
«Non serviva trasformare Hamer in inetto o buffone per celebrare Bonnie e Clyde. Ma non c’è obiettivo preciso, era una buona storia che andava raccontata. È più facile fare film sui cattivi, sono affascinanti, i buoni risultano più noiosi. Nella sceneggiatura, poi, c’era anche ironia, il socio di Frank, Maney Gault, interpretato da Woody Harrelson, è un tipo buffo, questo aiuta il film».
I due erano già pensionati, furono richiamati in servizio. Lei ha 64 anni, che effetto le fa?
«So bene anch’io cosa voglia dire invecchiare. Per me significa lasciare qualcosa ai mei figli, il senso di ciò che sono stato. Venire in Europa mi aiuta a riflettere».
In che senso?
«Viaggiare è stata la mia fortuna, l’Europa è cosi diversa dall’America. Ho avuto un’educazione conservatrice, vedere il mondo mi ha cambiato, mi ha aperto la mente. Per esempio, quando ho scoperto che Fandango aveva avuto più successo in Italia che in Usa, ho acquisito sicurezza».
Una carriera che ha alternato grandi successi, come gli Oscar per «Balla coi lupi», a momenti bui. Bilanci?
«Non guardo indietro. Cerco di scegliere bene, progetti divertenti. Gli insuccessi? Se non vedi il fondo non sai riconoscere il successo. Vale per tutti, non solo per noi attori».
Hamer pare un cowboy, lei è nella serie western «Yellowstone» e suona in una band folk, Modern West.
«Amo quel momento storico. Vorrei che la mia prossima regia fosse un film di cowboy. Con dei personaggi femminili belli e potenti. Devo insistere per farlo, lo so. Ma ce la farò».
Stefania Ulivi, corriere.it