Nel suo libro “Brotopia” la giornalista americana svela i retroscena delle grandi aziende del tech in California. Troppo spesso maschiliste
Prosegue l’ondata di denunce al mondo del lavoro dominato da uomini e, soprattutto, da uomini apertamente maschilisti. Nel suo nuovo libro Brotopia. Breaking Up The Boys’ Club Of Silicon Valley (Penguin Random House), la giornalista americana Emily Chang, produttrice del programma tv Bloomberg Technology, indaga sulle dinamiche scioviniste di alcune delle principali aziende della Silicon Valley, California. Che, sotto la facciata di universo progressista ed evoluto, cela in realtà un mare di discriminazioni a danno delle donne. La cui sola colpa è data dal loro genere sessuale.
Tutta la verità
Per le donne che lavorano in ambito tech, la Silicon Valley è tutt’altro che un mondo ideale e ospitale. Come spiega Chang, in gran parte degli uffici sono gli uomini a dettare tutte le regole. Vistosamente in inferiorità numerica, le lavoratrici si trovano a dover vivere in luoghi di lavoro tossici, dove discriminazioni di genere, avance e molestie sessuali sono all’ordine del giorno. Per fortuna, riporta Chang, una dopo l’altra, diverse donne del settore (vedi Sheryl Sandberg, direttrice operativa di Facebook) stanno iniziando a parlare, denunciare e reagire. Ecco quello che ci ha raccontato la coraggiosa autrice, il cui libro sta già facendo discutere molto oltreoceano. Che qualcuno nella Silicon Valley abbia paura della verità?
Come nasce l’idea di scrivere questo libro?
«Quando mi sono trasferita nella Silicon Valley mi sono immediatamente resa conto di essere parte attiva di una delle più grandi trasformazioni della storia, la rivoluzione tecnologica. Ho visto in prima persona il modo in cui persone e aziende stavano letteralmente cambiando la realtà. Ma c’era una domanda che mi tormentava: dove diavolo erano le donne?».
La loro minoranza nelle aziende del tech è tanto evidente?
«Le donne detengono circa un quarto dei posti di lavoro nel settore tecnologico e ancora meno ruoli tecnici di primo piano. Facendo ricerca ho scoperto che rappresentano circa il 9% degli investitori di venture capital e, ancora, che le aziende del tech guidate da donne ricevono solo il 2% dei finanziamenti».
Con questi dati alla mano come ha deciso di agire?
«Da brava giornalista ho iniziato a chiedere a imprenditori, investitori e amministratori delegati cosa stessero concretamente facendo per assumere e finanziare più donne. Uno di questi investitori mi ha detto che stava cercando disperatamente donne a cui dare fiducia, ma che non erano disposti “ad abbassare gli standard di valutazione”. Per questa ragione in 44 anni non era riuscito a trovare una singola donna che soddisfacesse i loro criteri. Una motivazione per me inaccettabile che mi ha scosso talmente tanto da motivarmi a fare un libro di indagine decisamente scomodo. Capendo come e perché le donne siano state fin da subito tagliate fuori da uno dei business più potenti al mondo».
Quali sono le responsabilità delle aziende del tech?
«Assumere più donne, e in generale rappresentare le minoranze, non è solo doveroso, ma anche una mossa intelligente. Parliamo di mega gruppi come Amazon, Apple, Facebook, Google, che notoriamente producono servizi per milioni di persone nel mondo. Ragione per cui una diversità aziendale può solo essere un plus nel modo in cui questi prodotti vengono inventati e pensati».
Il movimento Me Too ha aiutato anche le donne del tech a denunciare alcune situazioni?
«I semi dell’ondata #MeToo erano già presenti negli uffici della Silicon Valley ben prima che il movimento esplodesse a livello globale e sulla stampa. Un esempio? Nel 2012 l’investitrice Ellen Pao ha citato la società di venture capital Kleiner Perkins, per la quale lavorava, accusandola di discriminazione di genere. Pao ha perso la causa in tribunale, ma negli anni a venire, ha ottenuto le attenzioni e il sostegno dell’opinione pubblica. È stato un caso con un certo impatto: diverse donne del settore tecnologico hanno iniziato a parlare del grosso problema della differenza di genere. In tempi più recenti, nel 2017, una giovane ingegnere di nome Susan Fowler ha parlato di molestie sessuali e di un ambiente lavorativo completamente tossico nell’acclamata azienda Uber. E Harvey Weinstein non era ancora stato pubblicamente denunciato. Da quel momento in poi, le denunce sono però diventate più numerose anche nella Silicon Valley».
Quando e come è venuta a conoscenza di questa realtà sotterranea?
«Produco e conduco lo show tv Bloomberg Technology. Il che significa che ogni giorno intervisto imprenditori, investitori e dirigenti “top” del settore. Non è stato difficile realizzare che le donne non erano rappresentate affatto nel settore. Dopo qualche tempo ho trovato il coraggio di iniziare a chiedere ai miei ospiti informazioni sull’argomento e in questo modo ho realizzato che il problema era davvero molto grave e con radici profonde».
Come giornalista della Silicon Valley, qual è stata la sua esperienza?
«Confesso di avere vissuto io per prima episodi sgradevoli sul posto di lavoro, anche se mai gravi per fortuna. Il mio lavoro di giornalista implica il dover sviluppare relazioni con le fonti che cito, nella ricerca della verità. Diverse volte mi sono imbattuta in persone che hanno provato a sfruttare questi rapporti, mancando di professionalità».
Che cosa ha scoperto intervistando le donne che lavorano nel tech?
«Pur parlando con donne preparatissime, talentuose ed entusiaste del proprio lavoro, ho scoperto che molte di loro si sentono isolate e frustrate in ufficio, perché spesso e volentieri sono pochissime in una stanza, circondate da uomini. E questa sproporzione fa sì che accadano cose terribili».
Per esempio?
«Il suo primo giorno di lavoro in Uber Susan Fowler si è sentita proporre di fare sesso dal suo capo. Ed è assolutamente diffusa la prassi per cui gli investitori uomini chiedono alle donne che lavorano per queste aziende di incontrarsi a tarda notte con un drink in mano, nella hall dell’hotel o direttamente in camera. È ovvio che stanno superando ogni limite senza pudore. Per le donne che rifiutano questi inviti il risultato è perdere l’opportunità di ottenere qualsiasi investimento e restare ulteriormente escluse dai giochi. Un sistema perverso».
Cosa possono (devono) fare le aziende tecnologiche per cambiare questo status quo?
«In primo luogo dovrebbero fare della diversità una priorità immediata e ottenere una forza lavoro più equilibrata, intervenendo sulla stra maggioranza di uomini. E poi le aziende dovrebbero fornire ai propri dipendenti gli strumenti per combattere i pregiudizi, standardizzando inoltre i processi di colloquio e selezione, oltre ovviamente a quelli di assunzione e promozione. Silicon Valley non fa un buon lavoro nel mantenere le donne che hanno già aderito al settore. Non si tratta solo di diversità, ma di inclusione. E dovrebbero iniziare a partire da subito».
L’industria del tech è sempre stata tanto sessista?
«A dire il vero ai suoi inizi era tutto il contrario. Ho scoperto facendo ricerca che negli anni ’40 e ’50 le donne in realtà hanno svolto un ruolo cruciale nei primi sviluppi del sistema informatico, aiutando moltissimo nei programmi spaziale e militari. Ma quando l’industria tecnologica ha iniziato a esplodere negli anni ’60 e ’70, le aziende hanno iniziato a fare test della personalità attitudinali per identificare i migliori programmatori. E gli psicologi dell’epoca hanno deciso che un buon programmatore non doveva, in sintesi, amare le persone. Ed ecco che le donne hanno iniziato ad essere escluse fin dalla fase di colloquio, perché troppo empatiche e legate alle emozioni. Quello che i selezionatori non capiscono è che si stanno perdendo moltissimi brillanti talenti femminili. Il settore ha bisogno di accogliere donne, m anche persone di ogni religione e provenienza. Solo così produrrà servizi davvero innovativi».
Marzia Nicolini, Vanity Fair