L’attrice «premiatissima» affronta per la prima volta un film comico. In «Croce e delizia» interpreta Penelope. Qui ci ha raccontato com’è andata, e il rimpianto di una mancata laurea
Questa intervista è tratta dal numero 8 di Vanity Fair in edicola fino al 27 febbraio 2019
A scavare nel destino, l’attrice che sognava di diventare archeologa: «La mancata laurea è un rimpianto, è impossibile nutrirsi soltanto del mestiere che facciamo» non trova macerie, ma ragioni. Jasmine Trinca giocava a pallacanestro, votava Rifondazione comunista e andava in bicicletta fino al calar del sole: «Con un amico, ai bordi delle provinciali, perché, senza voler apparire nostalgica, in un’epoca in cui i telefonini non esistevano ero una ragazza molto avventurosa».
Dopo aver vinto 12 premi tra David, Venezia e Cannes, cerca canestri di parole nuove, continua a pensare agli ultimi senza manicheismi: «Sono molto lontana dalla politica che il mio Paese esprime sul tema dell’accoglienza arrogandosi il diritto di decidere della sorte di esseri umani che hanno avuto il solo torto di nascere dalla parte sbagliata del mondo e, pur essendo contraria, ne sono ugualmente responsabile», pedala ancora in territori sconosciuti. Per Simone Godano, capace di convincerla, affronta per la prima volta un film comico. In Croce e delizia interpreta Penelope: «Nonostante le persone che mi sono vicine dubitassero di me».
E perché dubitavano?
«Non perché io diffidi della commedia, tutt’altro, ma perché sostenevano che non fossi percepita come un’attrice con quelle corde. Li ho smentiti. E mi sono anche divertita».
Ora che i dubbi sono stati superati?
«Si è ribaltato il quadro e adesso a dubitare è lo stesso Godano. “Guai a te se nelle interviste cominci a gesticolare con quelle manone e a fare discorsi complicati”. L’ho rassicurato: “Non ti preoccupare”, gli ho giurato,“non parlerò di tele, né racconterò che Penelope è una metafora dell’inganno”».
Come mai una commedia?
«Ripensandoci, ho capito che questa storia della commedia in fondo ha un senso. Nonostante la vita mi abbia messo fin da giovanissima di fronte a prove impegnative, sono stata sempre una bambina molto più allegra che cupa».
Allegra come?
«Un po’ giullaresca. Ho perso mio padre da piccolissima, senza quasi averlo conosciuto, e a una certa durezza del contesto ho reagito con la buffonaggine. Una buffonaggine marcata, insistita, reiterata ed eccessiva già tra i banchi delle scuole elementari».
Anni fa rifiutò un ruolo da coprotagonista in un film di Checco Zalone. La produttrice, Camilla Nesbitt, si mostrò dispiaciuta: «Purtroppo ci sono pregiudizi ideologici nei confronti della commedia».
«Aveva ragione lei, feci un errore, ma mentre attraversi un percorso sbagliare fa parte delle possibilità. Giocare con il cinema invece, dopo tanti ruoli seri e drammatici, è stato bello».
A 18 anni le sue intenzioni erano diverse.
«Se parliamo di quali fossero le mie intenzioni all’inizio, discutiamo di una cosa di vent’anni fa. Più dell’esatta metà della mia vita. Tra due mesi compirò 38 anni, ho iniziato a lavorare a 18. Quasi non mi ricordo più chi fossi e cosa volessi diventare. Sicuramente non pensavo di fare l’attrice e da una parte, ad allontanarmi dall’idea, l’istinto giocava un ruolo preciso».
Come mai?
«Perché, pur essendo un lavoro entusiasmante, mette a disposizione degli altri tanto materiale personale ed emotivo faticoso da tirar fuori».
Il suo è un mestiere più esposto di altri alle nevrosi?
«Senz’altro. Non voglio essere amara, ma è il nostro tempo, in generale, a essere pervaso da un cronico senso di nevrosi, di insoddisfazione e latente depressione. Nel lavoro che faccio, interpreto ruoli che, anche se ti nascondi o ti travesti, ti portano a ripensarti e a condividere le tue ferite e i tuoi sentimenti. Per questo parlo di fatica, ma è una fatica che – mi chiami pure ingenua o idealista – faccio ancora volentieri perché credo che l’arte abbia questo compito: trasmettere modelli e immaginari differenti. Che si tratti di Stefano Cucchi o di una commedia, io lavoro sullo stravolgimento della norma, sull’estensione stessa del concetto di normalità, sulla trasformazione di ciò che a prima vista sembra avere una sola lettura».
E la nevrosi?
«Non è solo la folle condivisione di una parentesi intensa che vivi a tutta velocità e con grande familiarità in uno spazio e in un tempo ridottissimo, quello del set, con un gruppo di persone con le quali, a baracca smontata, perdi o quasi ogni contatto, ma è proprio un lavoro, il mio, che vive di curve euforiche e improvvisi momenti di vuoto e di sgomento».
Ha imparato a farci i conti?
«Da molto tempo, anche se a volte, senza averlo programmato in alcun modo, il flusso si interrompe e ti ritrovi un po’ straniato. Dopo Fortunata, per esempio, mi è capitato di non lavorare per moltissimi mesi».
E come lo impiegava il suo tempo?
«Immolandomi alla religione del passeggismo».
Prego?
«Passeggiavo, camminavo per ore e mentre camminavo, mi ricaricavo. Ricaricarsi non è semplicemente concedersi un periodo di riposo, ma farsi cullare dall’ozio. Un ozio non inutile: se osservo il mondo intorno a me, stia sicuro, prima o poi me lo rigioco in un’altra forma, ne faccio tesoro».
Ama l’atmosfera del set?
«Se me lo chiede ora, mentre sono a Bucarest a fare le notti al gelo, le risponderei “solo a tratti”, ma in realtà anche se non posso sostenere di essere priva di metodo, sicuramente difetto nell’organizzazione. Io credo nel “qui e ora” e sul set le cose nascono, si fabbricano, diventano realtà. Certo è diverso dall’intimità del teatro: sul set c’è dispersione di energia, confusione, la famigerata pizza bianca a metà mattina, per me che pure mangio di tutto, è una pausa che equivale al male assoluto. Però, pizza a parte, il set continua a piacermi».
In Croce e delizia, il suo personaggio, Penelope, è ancorato a una dinamica familiare che sembra immutabile.
«È una specie di adulta interrotta, avviluppata alla famiglia senza possibilità di staccarsi da un padre che lei sospetta la disistimi o almeno non la ami al pari della sorella. Al tempo stesso, Penelope è incapace, come tante persone che conosco, di recidere il filo con i genitori e camminare con le proprie gambe. Si lamenta e ha un’aria di rimprovero severo, ma non riesce a fare il salto. A liberarsi e a liberare anche i suoi genitori dal ruolo al quale una situazione cristallizzata li costringe».
Lei come se l’è cavata?
«Ho fatto di necessità virtù. Quando ero piccola, crescendo con una mamma sola che lavorava molto, ero una bambina che sapeva adattarsi. Ma era un’epoca in cui la centralità dei bambini nell’esistenza dei genitori era ad anni luce da quella di oggi. Eravamo noi a seguire gli adulti, non il contrario».
Penelope ha un’estrazione molto diversa dalla sua.
«I Trinca erano i pesciaroli del mercato di Testaccio e io sono cresciuta in un quartiere popolare con una madre che un lavoro fisso non l’aveva e comunque, pur arrabattandosi, viveva con grande dignità. Da bambina l’estrazione sociale non è mai stata un problema, anche perché non mi confrontavo con una realtà molto diversa dalla mia».
Cosa le ha insegnato crescere in un quartiere popolare?
«Come si sta al mondo, come ci si impegna nel profondo per farcela, come ci si guadagna da vivere. Ora che io e mia figlia Elsa abbiamo altre possibilità, cerco di rimanere la stessa ragazza che non ha mai guardato al cinema con l’ammirata soggezione di chi progetta una scalata sociale. La dignità non ha a che fare con la posizione che gli altri ci assegnano, ma con i valori che incarniamo».
Sua figlia le chiede mai dei suoi genitori? Suo padre è morto a 27 anni di età. Sua madre pochi anni fa dopo una lunga malattia.
«Spiegare la perdita a chi rimane è un passaggio complesso e non credo che mia figlia sia pronta a fare i conti con storie così intime e dolorose. Non è importante raccontarle come se ne siano andati, ma dirle che ci hanno lasciato qualcosa. Con mia madre sono stata una ragazza in gamba e a mia figlia è rimasta l’impressione di una donna forte e profonda. Con mio padre, che lei non ha conosciuto, il transfert è meno immediato».
Perché?
«Mio padre, persino per me stessa, è un ricordo più che sbiadito. Un’idea. Una sorta di fantasma. Una parte di me che non ho conosciuto e con la quale, nel bene e nel male, ho dovuto fare i conti. Ho una vita segnata dalla perdita e per tanto tempo sono stata convinta di non potermi permettere di diventare chi davvero desideravo essere. Pensavo che non ci fosse spazio per la mia tristezza e mi preoccupavo troppo di come gli altri mi percepivano, ma oggi non lo penso più, né mi interessa lo sguardo altrui. È come se si fosse liberato uno spazio e stessi vivendo quasi una seconda adolescenza che non significa andare in discoteca o fare la pazza, ma è la possibilità di riappropriarmi del santo e sacro libero arbitrio. A questo dovremmo tendere: a realizzare la nostra felicità. Che qualcuno voglia suggerirci come raggiungerla o addirittura si affanni per impedircelo, a volte mi fa sentire in bilico tra un racconto distopico e un film dell’orrore».
L’età le ha insegnato qualcosa che non sapeva sull’amore?
«Da un lato sì. Sono una grande romantica e ho un enorme rispetto per lo strazio amoroso dei vent’anni, di quell’età in cui l’amore non lo conosci ma lo vivi senza filtri godendo anche della sofferenza. Con il tempo capisci che i rapporti si possono affrontare anche con l’intelligenza e non soltanto con la passione e che soprattutto, anche se la sofferenza è formativa, il piacere è un imperativo categorico. Per noi ragazze, forse a causa di un protocollo culturale, abbracciare il piacere e l’istinto è complesso. È come se non ci autorizzassimo a sognare, se non siamo davvero convinte di saperlo fare al meglio».
Cosa non le piace in assoluto?
«Restare in attesa della telefonata o dello sguardo di qualcuno è esattamente tutto ciò che non bramo né cerco».
E desidera invece, un domani, di emulare Valeria Golino e provare a cimentarsi nella regia?
«Mi piacerebbe, sì. In un regista ciò che mi colpisce non è tanto la mano, il virtuosismo o la maestria nell’uso della camera. Non ho alcuna conoscenza tecnica e parlerei di cose che non so».
Che cosa cerca allora?
«Il suo sguardo. In Valeria l’ho visto fin dal principio e Miele, il mio film del cuore, mi ha lacerato e aperto a nuove possibilità».
Una definizione di attore?
«Da un lato siamo materia conforme, dall’altro completamente informe. Ogni volta che recito mi metto in contatto con l’altro e mi arriva una parte nuova di me, un aspetto che ignoravo. Mi scopro. E mi fa bene».
Malcom Pagani, Vanity Fair