Faccia a faccia con l’attore: strappi, sogni, dolori e fantasie. L’irresistibile ascesa di un «selvaggio»
Il servizio di copertina del numero di Vanity Fair in edicola fino al 6 marzo.
Memorie dal sottosuolo: «È novembre e sto guidando la mia moto. La macchina che mi precede sfiora il paraurti di un camion e si ribalta. Provo a evitarla e mentre stringo le dita sul freno, due secondi prima dell’impatto, capisco che sto morendo». Dice Marco Giallini che quella vecchia storia: «Per cui quando sei più di là che di qua rivedi tutta la tua vita passare in un istante» sia in parte vera e giura che una volta riaperti gli occhi con il casco sulla testa «il palato, il bacino, il coccige in mille pezzi e più di cinquanta fratture in tutto il corpo» intorno a lui: «Fosse tutto simile a un sogno, come succede solo al cinema».
Dodici anni fa, steso sull’asfalto di via Nomentana, gli apparvero prima Sabrina Ferilli: «Le sussurravo: “E adesso? Come facciamo a recitare insieme tra pochi giorni?”», e poi «la testa pelata di un infermiere che mi ripeteva: “Ma tu non sei l’attore? Mi raccomando, non addormentarti”».
Lei rimase sveglio.
«Recuperando in tre mesi quando secondo i medici avrei dovuto metterci almeno un anno. Sul set di Romanzo criminale ero pieno di antidolorifici e mi reggevo in piedi a stento. Avevo un corpo martoriato e ogni tanto, tra gambe, polso e braccia, mi si addormenta ancora tutto. La chiamano parestesia, ma ci vivo bene. Così bene che non ne potrei quasi fare a meno».
Scherza?
«Per niente. Ha presente quando si è troppo felici e si ha paura che quella felicità finisca? Quello che mi è successo in fondo mi riporta alla mia natura: stare sempre all’erta. Se ti distrai, è finita».
Si sente un miracolato per essere qui a parlarcene?
«Se fossi stato un miracolato l’incidente non l’avrei fatto, avrei scartato di lato e sarei caduto come il bufalo cantato dal mio amico De Gregori».
Cosa le ha insegnato questa storia?
«Per prima cosa, che poteva succedere anche a me. Che non ero immortale e non ero neanche Dio».
È una risposta originale.
«Ma sa, anche se non sembra, io sono intelligente. Se sei intelligente non puoi pensare di morire. Per terra, la notte dell’incidente mi dissi: “Cazzo, qui si mette male”, e poi, una volta superato il pericolo che il cuore, con tutte quelle emorragie interne, non reggesse, mi dissi un’altra cosa».
Cosa si disse?
«Che, anche se sfortunatamente non ero io, Dio doveva esistere per forza».
Da ragazzo cercava la provvidenza in periferia?
«Io non cercavo niente, né in periferia, né al centro della città. Mi buttavo nelle cose con l’attitudine dell’esploratore. Annusavo l’aria. Ero curioso. Mi lanciavo in avanscoperta in mondi che non erano i miei. Ginevra, Priscilla, Matilde. Le ragazze che incontravo alle feste avevano tutte nomi alteri e mi osservavano come gli inglesi scrutavano gli indiani a fine ’800».
Come scrutavano gli inglesi?
«Con l’aria di chi pensa: “Ma chi è questo selvaggio?”».
Era davvero selvaggio?
«Sono stato sempre un impulsivo, ma non sono stato mai un figlio di troia. Ho sempre avuto la capacità di entrare in contatto con gli altri e in qualche modo ho desiderato profondamente diventare popolare».
Inseguiva la fama?
«In realtà volevo diventare un pilota, correre con la motocicletta e conoscere la gente senza dover ricominciare ogni volta da zero: “Ciao, sono Marco, mi piacciono i Clash, Jane Birkin, i noir francesi e i campi di calcio in pozzolana di Tor Marancia”. Alla lunga, du’ palle».
Adesso sono gli altri a cercarla.
«E non mi dispiace. Ho attraversato il dolore e il dolore mi ha cambiato. Ero più riservato, ma adesso che gli anni passano e la corda brucia da entrambi i lati è come se sentissi un’urgenza e avvertissi la fretta di non perdere tempo e di sbrigarmi: a incontrare gli altri, a stringere rapporti, a vivere, se capitano, delle storie d’amore. La vita, dicono a Roma, è un mozzico».
Si innamora spesso?
«Mi serve qualche prova in più di quante ne pretendessi da bambino, quando mi bastava una luce in un appartamento vista dal finestrino di una macchina per immaginare una ragazza nella sua stanzetta e innamorarmi all’istante. L’infanzia è tutta una suggestione, un ingigantire, un volare, una fantasia».
Lei ne ha avuta molta?
«Se lo ricorda cosa diceva Bennato? Sosteneva che chi è normale di fantasia non ne avesse poi molta. Quindi non so se sono stato normale, ma con la fantasia ho lavorato spesso. Mi sono dovuto inventare possibilità che non c’erano, strade che non esistevano».
Qual era il limite?
«Il volere senza potere. I popolani saggi ci ammonivano: “Se vecchiaia potesse e gioventù sapesse”. Avevano ragione. Da giovane vuoi mangiarti il mondo, però poi resti a digiuno e non mangi un cazzo. Vorresti andare sulla luna, paracadutarti su Tokyo, scalare l’Everest. Invece rimani a terra e magari ti capita di piangere».
Lei piange ancora a 55 anni?
«Mi capita e mi è capitato, ma non me ne sono mai vergognato. Neanche davanti ai miei figli. Farsi consolare forse è sbagliato, ma mostrare le proprie debolezze e gli occhi umidi non lo è mai. Papà, mio padre, era fondamentalmente un duro, ma non si vergognava di farsi vedere in lacrime. Quando uccisero il dodicenne Ermanno Lavorini e lo ritrovarono in spiaggia, a Viareggio, nel 1969, lo vidi piangere a dirotto».
Suo padre, Antonio, lavorava in una fornace.
«Aveva la terza elementare e amava il cinema. Poteva fermare la macchina solo per salutare Amedeo Nazzari in mezzo alla strada rischiando di farsi investire e guidare la moto in canottiera, dritto come un fuso e bello come il sole, sulle strade del Reatino, con le fascine legate dietro e i campi da curare a mezzadria per certi ricchi avvocati romani».
Vivevate in periferia. Cos’è per lei la periferia?
«Un posto in cui ci si saluta e si vive bene. Un luogo in cui a volte si sta anche male e il tempo trascorre immobile. Una comunità in cui possono ripararti lo specchietto di una macchina nottetempo anche se non ti vedono da cinque anni, perché magari te la sei vista brutta insieme da ragazzini e ti ricordi bene che a quell’epoca dividevi tutto. Come cantava Dalla in Anna e Marco, in periferia c’è “poca vita e sempre quella”. Ecco, forse poca vita no, ma sempre quella sì. “Marco grosse scarpe e poca carne” in qualche modo sono io. Uno che è cresciuto e in periferia è rimasto, senza per questo sentirmi un eroe. Un eroe era papà. Uno che in garage aveva tutto, tirava su le case con le sue mani, sapeva fare mille lavori, si sbatteva come un mulo e non si lamentava mai. Dei suoi talenti, non ne ho ereditato mezzo. A parte il carattere. Sono proprio come lui».
E com’era il carattere di suo padre?
«Un uomo incapace di qualunque retorica. Bisognava fare. E lui faceva. A un certo punto, le ciabattine non mi entrarono più e papà, per non farmi camminare come un ragno, con i piedi sul selciato, incollò una tomaia presa da un’altra ciabatta. Si viveva così, a fine anni ’60. Senza farsi troppe domande e senza parlare troppo».
Ed era un bene?
«Non lo so. C’era una normalità meno nevrotica. Ci sembrava tutto bello. Alla primavera seguiva l’estate, all’estate l’autunno e poi ti ritrovavi davanti all’albero di Natale osservando che, di tanto in tanto, un parente se l’era preso il cielo. Mia nonna tirava la testa alle galline ancora vive davanti a noi bambini e non si preoccupava certo di farci allontanare o di turbarci. Vivevamo in periferia, una periferia più povera di oggi, e se c’era da passarsi scarpe o pantaloni tra fratelli, succedeva. A noi come a qualche altro milione di persone. Ma la fame non l’abbiamo mai fatta. Papà e il fratello di mia madre, zio Domenico detto Menco, dalla campagna riportavano certi quarti di bue e certi grappoli d’uva che ci potevamo sedere a tavola in venti».
Si guarda mai indietro?
«Mi rivedo a pensare al Duemila e a dirmi: “Avrò 36 anni, sarò ancora giovane, ma che me frega del futuro?”. Poi il tempo passa e gli anni in cui da fan del western ritagliavo le sagome disegnate da Bonelli o da Trevisan per Il Corriere dei Piccoli per giocare con i miei fratelli al saloon e al Generale Custer svaniscono per sempre».
Quanti fratelli ha?
«Ne avevo tre e ne sono rimasti due. Uno aveva quindici anni in più di me, faceva il tipografo alla Zecca dello Stato e non c’è più. L’altro, Ezio, fa lo spedizioniere controllando pacchi e smistandoli. Poi c’è Giuseppe. È come un ragazzino di dieci anni, ma ne ha quarantanove».
Non ne ha mai parlato.
«Perché non me l’hanno mai chiesto e perché su certe cose il pudore è santo. Gli mancò ossigeno durante il parto, così dissero a mia madre. Con Giuseppe, essendo il più prossimo a lui come età, sono cresciuto fianco a fianco. Sa qual è uno dei miei film preferiti? Toto le héros. Non lo danno mai in tv e non capisco il perché. È la storia di un ragazzo che ripensa alla sua giovinezza in una casa di riposo. Crede gli abbiano scambiato la culla non appena nato e immagina di diventare un eroe. Ha un fratello con qualche serio problema anche lui e sa di che tipo di ricchezza si tratti. Se qualcuno me lo toccava, Giuseppe, o peggio gli rideva dietro, faceva i conti con me».
I suoi genitori vi amavano tutti nello stesso modo?
«Giuseppe lo amavano di più. Mio padre e mia madre sono stati due genitori e due persone eccezionali. Negli ultimi anni mamma ha perso qualche colpo. Ora vive con Giuseppe e con l’altro mio fratello».
Che significa «ha perso qualche colpo»?
«Purtroppo mamma non c’è più. Aveva l’Alzheimer. All’inizio dimenticava le cose, poi iniziò a non riconoscere i miei figli. Mi metteva paura, si perdeva in un attimo, chiedeva: “Come sta la bambina?”. E parlava di mio figlio Diego. Sa cosa mi commuove? Ripensarci mentre la guardo negli occhi e le dico: “Mamma, è Diego e ha 17 anni”. Lei sorride e le sussurro: “Mamma, ma hai capito chi sò?”. Allora la vedo sorridere, cambiare prospettiva in un attimo e rispondermi: “A Mà, ma che sei stupido? E che non so chi sei?”. Lì capisci che qualcosa non va, che da qualche parte deve esserci uno sbaglio».
Malcom Pagani, Vanity Fair