Sul set di ‘Pet Sematary’, ritorno a Stephen King trent’anni dopo

Sul set di ‘Pet Sematary’, ritorno a Stephen King trent’anni dopo

In sala il 9 maggio il nuovo adattamento dal classico del maestro dell’horror. Nella nuova versione Jason Clarke e John Lithgow nel ruolo del vecchio vicino che conosce i segreti del cimitero indiano

“Dietro la casa, il campo terminava e cominciavano i boschi: quei boschi che conducevano prima al cimitero degli animali e poi al terreno di sepoltura dei Mi’kmaq…”. Lo shuttle della Paramount è dello stesso colore di Church, il gattone che nel libro di Stephen King viene investito da un camion della Orinco e poi resuscita. Il pelo irto, gli occhi da spy-cam. Su di noi, la nuvola grassa che già incombeva sulla famiglia Creed nel film diretto da Mary Lambert trent’anni fa. “Cimitero degli animali” recita un’insegna. Segue un passo dal Vangelo secondo Giovanni: “Allora Gesù parlò loro apertamente: Lazzaro è morto, sì… Ciononostante andiamo da lui”. Siamo sul set del remake di Pet Sematary (Cimitero Vivente) – dal 9 maggio distribuito da 20th Century Fox Italia – a meno di un’ora da Montreal, nel mezzo di un campo chiamato Farm Airsoft Battlefield.Lo studio Paramount Pictures lo ha scelto per ricostruire la piccola città di Ludlow dove il dottor Louis Creed (Jason Clarke) porta a vivere la moglie Rachel (Amy Seimetz), i figli Ellie (Jeté Laurence) e Gage (Hugo Lavoie). E il gatto di Ellie, Winston “Church” Churchill. Il loro vicino, Jud Crandall (interpretato da John Lithgow), li mette subito in guardia: “Dovete stare molto attenti a quella strada. Quei maledetti camion vanno su e giù tutto il giorno e gran parte della notte”. Quando Church finisce sotto le ruote di un tir, il vecchio Jud convince Louis a seppellire il gatto nel cimitero della tribù degli indiani Mi’kmaq, ottomila acri a est della città. “Quello che abbiamo fatto deve restare segreto. Il cuore di un uomo, Louis, è più duro di una pietra” gli dice. Il gatto torna in vita ma non è più lo stesso. E poco dopo tocca al piccolo Gage.I registi Kevin Kölsch e Dennis Widmyer ci accolgono insieme a parte del cast sull’orlo di quella che, nelle pagine di King, i Mi’kmaq chiamavano la Palude del Piccolo Dio (per i mercanti di pellicce invece era il Pantano del Morto). “Nel romanzo, la maggior parte di quelli che attraversano la Palude del Piccolo Dio una volta e ne escono vivi, poi non ci tornano più. Siete pronti?”. Alle spalle, una prateria dove scorrazzano liberi i cavalli. Davanti a noi un deposito di sabbia di quarzo (“sabbia di silice”), l’erba indurita dal ghiaccio, abeti, un fuoco di Sant’Elmo e quarantaquattro scalini tagliati nella roccia. Siamo nel cuore del cimitero indiano, il luogo dove si seppellivano gli animali insieme ai padroni. Paramount non ha badato a divieti e bollini pur di lasciar scorrere il terrore nel film, spiegano gli autori: “Pet Samatary è l’horror più umano e drammatico mai scritto da King. Lo studio ci ha lasciati liberi di girare. Siamo al ventiduesimo giorno di riprese e l’unico che ancora manca all’appello è proprio il re dei re, Stephen King. Ogni mattino, all’alba, andiamo a controllare i suoi tweet. Ci avrà menzionati? Parla di noi? Invece è lì che se la prende con Donald Trump” sorridono i registi. “Lo inviteremo senz’altro all’anteprima. Dato che non ha messo mano alla sceneggiatura, siamo curiosi del suo giudizio”. La troupe si sposta sulla collina e dalla produzione ci fanno segno di montare su un golf-cart per raggiungere il “terreno di sepoltura”, al di là del cimitero degli animali.Silenzio improvviso. Qualche grillo, un fringuello. Gli attori riemergono dalla sterpaglia dopo ore di prove e blocking. “Scena 52. Ci hanno preso le misure e piazzati su una montagnola per darci in pasto ad orsi e alci” scherza il protagonista Jason Clarke (l’astronauta Ed White, amico di Neill Armstrong in First Man) ancora a mezz’aria, appeso a un cavo di sicurezza, con le braccia muscolose sopra il binario della macchina da presa. “Ho quasi cinquant’anni, ho cominciato a fare questo mestiere con Gene Hackman. Amo essere al servizio del cinema. Pet Sematary è una grande storia di formazione familiare; girando il film mi sono chiesto spesso: se i miei figli morissero, cosa farei? Li seppellirei in un cimitero che li fa tornare in vita? King ragiona su questo confine, sull’impossibilità di dire addio ai nostri cari. A volte, però, è meglio la morte”. Le scene rimaste sono tutte in notturna. Il set all’aperto a breve sarà invaso di luci artificiali color smeraldo, fumi e croci impalate a terra, mentre ai piedi di un boschetto la casa di Jud Crandall prende fuoco. “I registi ci hanno dato There Will Be Blood (Il petroliere) di Paul Thomas Anderson come riferimento” assicurano gli attori. Vicino a un dirupo si fa largo un tendone da circo a due ruote, è il caravan di John Lithgow.”Un’entrata in grande stile” la mette in burla Lithgow, 2 nomination agli Oscar negli anni in cui usciva il best-seller di King. “Qui non fanno che trattarmi come un attore degli anni Cinquanta, così mi calo nella parte”. Barba bianca, una camicia stropicciata, Lithgow sa che il personaggio di Jud Crandall è la superstar del film: “Jud si comporta un po’ come la voce della coscienza di King. E ve lo dice uno che non ha ancora letto il libro né visto il film dell’89. Conoscevo però Fred Gwynne, l’attore che per primo ha interpretato Jud al cinema. Ci ho lavorato a teatro assieme. Questa versione di Pet Sematary è come un jazz, si prende parecchie libertà rispetto alle pagine originali, pur conservandone l’anima”. E aggiunge: “Jud è un uomo con un enorme segreto. Sa che esiste un modo per riportare i morti in vita. È un apprendista stregone, in fondo. Non è semplice interpretare un uomo che si porta appresso un conflitto del genere”. Il produttore Lorenzo di Bonaventura – un résumé d’action ad alto tasso di botti ed esplosioni, dai Transformers all’ultimo, acquatico The Meg – pensa che “uno studio come Paramount che sceglie di confrontarsi non con l’horror ma con l’idea di razionalizzare ciò che non è razionale, mi fa capire quanto sia cambiata la società, e non solo l’industria del cinema, dalla data di pubblicazione del libro (1983). King è stato e continua ad essere il talismano del grande e del piccolo schermo. Da generazioni. Oggi fare un film del terrore significa guardarsi dentro, non guardare fuori. I successi di The Conjuring e It sono dei punti di partenza. Viviamo in un momento storico in cui assemblare un team di creativi dotati di spirito e tempra è diventata l’eccezione e non la regola. Se un regista non accetta le mie sfide da produttore, se non fa muso contro muso come ai bei vecchi tempi, perché alzarsi al mattino e fare cinema?”.

Filippo Brunamonti, repubblica.it

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