Ivano Fossati è uno dei più importanti autori di musica del nostro tempo. Ha scritto quello che, per me, è uno dei testi più belli della storia della canzone d’autore: «C’è tempo». Il brano finisce con una frase della quale, nella sua casa di Genova, parleremo a lungo: «Io dico che c’era un tempo sognato / che bisognava sognare». Fossati ha scritto «Notte in Italia», «Cara democrazia», «La mia banda suona il rock» «Panama» e poi, per Patty Pravo «Pensiero stupendo», per Loredana Bertè «Dedicato», per Mia Martini «E non finisce mica il cielo» e la magnifica «Le notti di maggio» per Fiorella Mannoia. Tutte donne, universo centrale nel suo lavoro creativo. I suoi testi, ricerca linguistica applicata a sentimenti e storia, si sposano con una ricca cultura musicale che attinge ai suoni del mondo, al jazz, alla tradizione operistica. È musica colta e popolare. Un genere raro. Un giorno di qualche anno fa Fossati ha detto basta ai concerti, alle promozioni, alle apparizioni tv. Basta, una parola corta e difficile da pronunciare.
C’è un momento preciso nel quale hai deciso «basta, smetto»?
«Credo di aver deciso trent’anni prima di annunciarlo. Ha pesato il mondo dal quale provengo. Mio padre è stato mio nonno. Io il padre non l’ho avuto, è andato via quando avevo un anno. Via, lontano. Lontano da me, da noi. Mio nonno lavorava in una conceria, lavoro duro. Mi ha fatto capire che non era giusto dedicare tutta la vita a quello che si faceva, anche se era una cosa bella. Nella sua idea un terzo della vita doveva essere libero, dedicato a quello che tu sogni di fare, a quello che ti regala serenità, felicità. Nel suo caso — era un uomo semplice, un operaio di fabbrica — era andare a caccia, a passeggiare sui monti».
E quali sono state le tue passeggiate in montagna?
«Alzare lo sguardo. Quando ho preso la decisione molti dicevano: “Ma sei sicuro di quello che stai per fare?”. L’unica cosa che mi è accaduta è stata poter alzare lo sguardo. Una cosa bella. Finalmente vedere le cose non più in relazione al mio lavoro. Non più guardare questo mazzo di fiori pensando di raccontarlo. Non più guardare una strada di New York per raccontarla. Quando alzi lo sguardo finalmente le cose ti appaiono più chiare. Per me questa scelta aveva a che fare con la dignità. Così mio nonno me l’ha trasmessa. L’ho capito quando sono stato più grande, tenere una parte di vita per guardare, per te stesso. Attiene alla dignità di un individuo».
C’è qualcosa che ti manca?
«Contrariamente a quello che si può pensare, mi verrebbe da rispondere di no. Le due parti del mio mestiere che mi piacciono di più le ho tenute: scrivere canzoni, essere un autore, e poi passare più tempo possibile dentro uno studio di registrazione. Non ho più l’esposizione di me stesso al pubblico. Non c’è più “l’ostensione” in teatro. Non ci sono più la fatica, i chilometri, la tensione. Anche un mestiere come il mio, sembra sacrilego dirlo, nasconde una fortissima componente di routine».
Forse «c’è un tempo», non solo nella musica, in tutta la creatività, in cui si dona il meglio, poi si comincia ad amministrare se stessi. Ha pesato questo?
«Sì, ha pesato. Comincia una fase nella quale rappresenti solo te stesso: passi dalla rappresentazione delle tue idee a quella del tuo passato. E questo si traduce in operazioni, operazioncine, duetti. So che c’è un momento splendente nella nostra carriera, nella nostra vita. Per me è iniziato quando avevo venticinque anni e ho cominciato a capire cosa volevo essere. Negli ultimi due anni ho tenuto dei laboratori all’università di Genova. Una delle prime cose che ho detto ai ragazzi è stata: “Gli artisti è importante che sappiano cosa vogliono essere”».
Ti sembra che il flusso su YouTube o Spotify abbia avuto un effetto sul contenuto e sulla fruizione della musica?
«Siamo passati dalla centralità della musica al fatto che sia diventata il carburante per i cellulari. Si ascoltavano le cose con attenzione, si discutevano, si imparava a sognare o a ragionare. Esattamente come se si leggesse un libro. Non c’era differenza tra immergersi nella letteratura o nella musica».
Di Salinger e di Battisti che pensi? Due scelte molto radicali…
«Nei miei sogni più segreti pensavo: “Vorrei che la gente conoscesse le mie canzoni e non la mia faccia”. Quella poca notorietà che ho la porto con fatica, preferirei essere una faccia anonima. Però mi piacerebbe molto che la gente riconoscesse le mie canzoni. Una forma di egoismo, forse. Ecco perché mi piace Salinger, la sua scelta di parlare solo con le sue parole. Battisti per me è il più grande in assoluto. Sono sempre più ammirato dal suo modo di fare musica. C’è un dogma, un diktat che viene dalle radio: mai interrompere il ritmo. Le canzoni di Battisti sono tutte pause, come la musica classica. Lui aveva un’intuizione meravigliosa melodica e poi si fermava, cambiava ritmo. “Mi ritorni in mente” si ferma non so quante volte, come “Fiori rosa fiori di pesco”. Battisti è più avanti di adesso, è più avanti di quello che consideriamo oggi il meglio della musica».
Walter Veltroni, Corriere della Sera