Buon compleanno a Gerard Depardieu: settanta candeline per l’icona del cinema

Buon compleanno a Gerard Depardieu: settanta candeline per l’icona del cinema

Grande e grosso, irsuto e ribelle, eccessivo e dolcissimo, Gérard Depardieu è stato per decenni la “Marianna” al maschile del cinema francese, simbolo di un popolo che prima di lui si era incarnato così profondamente nel mito solo grazie a Jean Gabin (tra i divi) e Brigitte Bardot (tra le star in cui il cittadino medio rivedeva l’allegoria della giovane donna col cappello frigio chiamata appunto Marianne).

È nato il 27 dicembre del 1948 a Chetauroux, nei grandi boschi sulla valle della Loira, nel paesino messo a ferro e fuoco nel 1356 dal Principe Nero. Da qui un soprannome che starebbe bene anche al celebre attore, dalla personalità controversa e focosa, tanto da fargli rinunciare alla cittadinanza francese in opposizione alle leggi fiscali introdotte dalla Presidenza Hollande e da prendere nel 2013 quella russa offertagli dal Presidente Putin. Figlio di un fabbro e di una casalinga, studente ribelle e poi autodidatta, spedito per breve tempo in un riformatorio a 15 anni, arriva a Parigi dopo aver fatto il contrabbandiere, il giocatore di calcio, il tipografo, e trova quasi per caso la sua strada iscrivendosi a un corso di recitazione.

A 22 anni sposa la sua insegnante, Elisabeth Guignot, che gli presenta lo sceneggiatore e regista Michel Audiard che lo fa debuttare con un piccolo ruolo in “Il grido del cormorano” nel 1971. Audiard è il gran maestro del giallo alla francese, il “polar”, e il suo lasciapassare è un vero passaporto per il giovane Gérard che in poco tempo, nonostante la balbuzie e una segreta timidezza, si fa un nome grazie al fisico atletico, la comunicativa prorompente, la voglia di sperimentarsi.

Lavora con Jacques Deray (Un po’ di sole nell’acqua gelida), Josè Giovanni (Il clan dei marsigliesi) perfino con Marguerite Duras (che sarà sua grande amica) in Nathalie Granger (1972).

Insieme a José Giovanni, Pierre Tchernia, Betrand Blier e Alain Resnais, sarà proprio Duras a fargli spazio nei salotti del buon cinema parigino, accreditandolo di quel talento che altrimenti rischiava di rimanere prigioniero nel cliché del duro ma buono, adatto ai film d’azione e poco più.

Il grande successo popolare arriva nel 1974 con il trionfo de I santissimi di Bertrand Blier in coppia con il bello e dannato Patrick Dewaere e da lì l’attività si fa frenetica anche per merito dei registi italiani che lo adottano; da Bernardo Bertolucci a Marco Ferreri che lo chiamano nello stesso 1976 per Novecento e L’ultima donna.

Con più di tre film all’anno (quasi sempre successi di critica e pubblico) Depardieu diventa in breve il nuovo astro del cinema europeo. Lunghissima è la lista dei capolavori cui ha impresso uno stile personalissimo e un vero marchio di fabbrica che va persino oltre l’eccellenza degli autori con cui ha lavorato.

Per citare solo qualche esempio: Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre di Claude Sautet (1974), La camion di Marguerite Duras e Ciao maschio di Ferreri (1978), Mio zio d’America di Resnais e L’ultimo metro di Fran‡ois Truffaut che diventerà il suo mentore (1980), Danton di Andrzej Wajda (1983) e Police di Maurice Pialat (1985) che porterà a vincere una mitica palma d’oro a Cannes nel 1987 con Sotto il sole di Satana.

E poi nel nuovo decennio: Cyrano di Jean-Paul Rappenau (1990), Green Card di Peter Weir (il primo film americano nello stesso ’90), Una pura formalità con Giuseppe Tornatore e Roman Polanski (1994), Asterix di Claude Zidi (primo capitolo di una lunga serie nei panni di Obelix) nel ’99.

Passato il capo del 2000 le occasioni memorabili diminuiscono mentre cresce l’imponenza del fisico. Vengono in mente L’apparenza inganna di Francis Veber (2000) e Concorrenza sleale per Ettore Scola (2001), Bellamy di Claude Chabrol (2009) e Mammuth di Kervern&Delepine (2010), il controverso Welcome to New York di Abel Ferrara (2014) e L’amore secondo Isabelle di Claire Denis (2017).

Ma Depardieu è ormai l’icona di se stesso, un monumento che si nutre della propria celebrità e spesso la mette a disposizione, con generosità innata, di giovane talenti e progetti paradossali o avventure televisive come la serie Marseille ancora in onda su Netflix. Il suo amore bulimico per il cinema non si arresta: cinque titoli nell’anno che finisce, altrettanti già annunciati o in lavorazione per il 2019. Non è semplice tracciare un profilo dell’attore distaccandosi dall’uomo, tanto la sua personalità si è fatta prorompente e ha superato la sola dimensione dell’interprete. Che faccia il produttore di vini (eccellenti quelli della sua tenuta in Puglia) o il seduttore (dopo la prima moglie ha avuto numerose storie e due lunghe convivenze, prima con Carole Bouquet e poi con Clementine Igou), il padre di famiglia (tre figli e altrettanti nipoti) o il provocatore politico con atteggiamenti anarchici e controcorrente ogni volta più marcati, Depardieu è sempre uguale a se stesso.

L’attore ha dimostrato invece un’insaziabile volontà di cambiamento e sperimentazione, passando dal realismo tragico al surreale, dalla commedia alla farsa, dal cinema d’autore a quello popolare, senza nessun ritegno. Lo stesso sprezzo di ogni convenzione che più volte lo ha portato alla ribalta della cronaca: reo confesso di turbativa in aereo dove fece pipì nel corridoio durante un volo, accusato di stupro (da cui si è sempre dichiarato innocente) e di molestie, sostenitore di dittatori e rivoluzionario, ogni volta Gérard ha voluto essere protagonista, invadendo la vita reale come fa sullo schermo con la sua voce potente e la figura debordante.

Sono tutti segnali di una timidezza mai celata, di un desiderio di mostrarsi che fa a pugni con la paura di non essere all’altezza. Eppure non si può restare indifferenti al fascino di questo gigante che il cinema europeo celebra oggi tra i più grandi.

Il Messaggero

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