«Non dica quella parola. Postproduzione è un vocabolo che a casa mia è bandito da anni. La luce si fa sul set». Luciano Tovoli è un uomo attento al linguaggio. Seleziona i termini con grande accuratezza, e non si fa problemi a bandire quelli che non gradisce. «Lo stesso per “direttore della fotografia”. È una qualifica che non rende giustizia al nostro lavoro. Ho sempre combattuto perché si parli di “autore della cinematografia”. “Cinematographer”, come dicono correttamente gli americani. Chi si occupa della luce su un set ha la paternità del film alla pari del regista. Nel resto dell’Europa l’hanno capito da anni, in Italia finalmente ci siamo arrivati». Tovoli sarà al Torino Film Festival oggi, 27 novembre, alle 16 nella Sala lauree di Palazzo Nuovo. Perché nessuno meglio di uno dei grandi maestri del nostro cinema può raccontare e approfondire l’ipnotico technicolor di Powell & Pressburger. Toscano doc, della sua terra non ha perso la parlata salace. Si definisce un pigro, che calca i set quasi controvoglia. «Avrei sempre voluto non lavorare e andarmene a spasso su una barca. Una barchetta piccola, mica uno yacht. Ogni volta che un regista litigava con me mi dicevo: “Dai che è la volta buona, pianto tutto e mi faccio il giro dell’Isola d’Elba”. Poi però scoppiava la pace e loro mi richiamavano per il film successivo. E così, un film dopo l’altro, è da cinquant’anni che non smetto di lavorare». Fresco di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, esordisce nel cinema come assistente di Vittorio De Seta nel film «Banditi a Orgosolo», premiato a Venezia nel 1961 come miglior opera prima. Da lì inizia la sua collaborazione con il gotha del cinema italiano e internazionale: Pialat, Antonioni, Comencini, Argento, Ferreri, Cavani, Tarkovskij, Moretti, Scola, Barbet Schroeder, Francis Veber. Vince due Nastri d’Argento nel 1976 per «Professione: reporter» e nel 1989 per «Splendor», oltre a un David di Donatello nel 1990 per «Il viaggio di Capitan Fracassa». Fra tutto quel ben di Dio di capolavori firmati, il suo film che preferisce è però «Fracchia contro Dracula» di Neri Parenti. «Curare la fotografia per un film drammatico è facilissimo: tinte tenui, luci radenti, ombre. Il difficile è illuminare una commedia, dove l’effetto non è la poesia ma la risata». Tovoli ha aperto la strada a molte novità tecniche. Nel 1980 con «Il mistero di Oberwald» di Antonioni sperimentò per la prima volta al mondo l’immagine elettronica applicata al cinema, quando «alta definizione» era un termine che ancora non esisteva nei vocabolari. E con le tinte shocking di «Suspiria» (di cui ha appena finito di curare a Los Angeles il restauro definitivo) segnò un capitolo fondamentale della sua carriera. «Venivo dalla fotografia realistica, da Cartier-Bresson, e con quel film decisi che avrei usato il colore come schizzi di vernice, alla Jackson Pollock. Il produttore era il papà di Argento e rimase sconvolto all’idea, ma io e Dario ci siamo trovati d’accordo e così alla fine è stato». Come regista ha avuto una sola esperienza, nel 1983, con «Il generale dell’armata morta», interpretato da Mastroianni, Anouk Aimée e Michel Piccoli. Film bello e sfortunato, che riscosse grande successo in Francia ma non uscì mai nelle sale italiane, bloccato dal fallimento della casa di produzione. A distanza di 35 anni, Tovoli vorrebbe ripetere l’esperienza da regista, ponendosi nuove sfide. «Vorrei girare un film tutto durante la cosiddetta “magic hour”, tra il tramonto e la notte, quando resta un barlume di arancione nel cielo. Dura cinque minuti in tutto. Ci vorranno sei mesi a girarlo? Pazienza, tempo ne ho. Altrimenti c’è sempre una barchetta che mi aspetta».
Fabrizio Accatino, lastampa.it