Il 22 novembre del 1968 vedeva la luce uno dei lavori più complessi e sfaccettati della band inglese, dove le quattro personalità dei suoi componenti si sono espresse senza vincoli dando vita a una lavoro epocale
Cinquant’anni fa. It was fifty years ago today, no, non è quello il disco, e poi erano twenty, venti, quella volta di “Sergeant Pepper”. Mentre qui si parla di un altro passaggio del 1968, di quel solco enorme in cui si sono infilati politica, costume, società, tutto. La vita. La musica, pure. Iniettata, quasi a fine anno, dall’album più grande della band più grande. The Beatles. La band, ma anche il nome ufficiale dell’opera venuta al mondo il 22 novembre e che in tempo reale sarà riconosciuta dai bipedi di tutto il pianeta come il “White Album”, l’Album Bianco come la sua sleeve, candida, apparentemente immacolata, contrassegnata solo dal titolo-ragione sociale in rilievo, bianco su bianco, che riemerge tramite una riedizione da collezione – remix, demo, documenti più o meno inediti – che sta già facendo saltare il banco delle vendite online.La band più grande, e fino a qui poche o nulle discussioni; ma perché il disco più grande? Perché non lo stracelebrato “Sergeant Pepper’s”, l’epico “Abbey Road”, gli abbaglianti “Rubber Soul” e “Revolver”, o i primi lavori della Beatlemania? Perché il Bianco è il colossale talento dei Beatles, la creatività che si miscela a un segmento esistenziale complesso, di cambiamento per i singoli, il gruppo e per il mondo che li circondava (1968, remember), una crisi che come tutte le crisi può liberare qualsiasi istinto, e quello artistico dei Fab Four non era dei più banali. Via libera, gabbie aperte, ognuno per sé all’interno di una band, i recinti non esistono più, e nasce un doppio album in cui vale tutto. Ora, la storia del mondo – e figuriamoci della grande musica, dell’arte – è fatta di ossimori, di apparenti o involontarie contraddizioni: vestire in Total White un’opera-caleidoscopio pare una di queste, a meno che sia da considerare come un foglio vuoto, la tela da riempire di colori, non necessariamente abbinati o incanalati dentro punti precisi, figure. Astrattismo, insomma.Sulla tavolozza dei Beatles in quell’estate di registrazione ad Abbey Road, un mucchio di tempere, pressoché tutte, vivaci, opachi, contrastanti. I toni chiari, pieni di luce delle canzoni ispirate dall’India durante il buen retiro meditativo di inizio anno, pensate e poi appoggiate sulla chitarra acustica: ecco il giallo, l’azzurro, il verde prato di “Dear Prudence”, di “Blackbird”, “I Will”, “Mother Nature’s Son”, il lilla da confetto Smarties per raccontini come “The Continuing Story of Bungalow Bill”, “Rocky Raccoon” di McCartney che dipinge con il verde della speranza e dell’ottimismo più scontato, “Ob-la-dì, Ob-la-dà”, forse la sua peggiore canzone a livello concettuale, ma anche gli inciampi hanno un senso, in un puzzle simile, ha senso e medesimo colore anche il contributo di Ringo, “Don’t Pass Me By”. Da laggiù, e in quello stile, però, anche il lamento che copre come un blu scuro di George Harrison, con “While My Guitar Gently Weeps”, e le tinte strane, sfumate verso una sabbia, un grigio che escono dai complicati e unici cassetti mentali di John Lennon: le sofferenze di “I’m so Tired”, la fumosa (capiamoci) e fantasticamente evocativa immaginazione di “Cry Baby Cry”, il messaggio di “Glass Onion”. C’è il viola del velluto di “Sexy Sadie”. Il rosa, tutto meno che shocking, anzi, mischiato col grigio della nostalgia di “Julia”, la ballata per la madre che manca e per Yoko che finalmente c’è, uno degli apici del poeta dei Beatles.E poi ovviamente non possono mancare i toni forti della rivoluzione che gira intorno quando si torna a Londra, del rock che ritorna fuori. Arancione e poi rosso, tanto rosso, talmente forte da degradare in un carminio violento. “Revolution 1”, appunto, tanto per cominciare. Da lì in su, “Yer Blues”, “Why Don’t We Do It on The Road”, “Back in The Ussr”, “Everybody Got Something to Hide” – sottovalutatissimo e pazzesco – per sfociare in “Helter Skelter”, un rosso talmente scuro da generare il nero, quello del buco in cui è sprofondato Lennon in “Happiness is a Warm Gun”. Tutti i colori possibili che già vengono schizzati nel patchwork unico, nella storia del pop, di “Revolution 9”. Per essere in seguito mescolati completamente, tutto insieme, il pennello che gira vorticosamente come un disco sul piatto. A questo punto, qualsiasi pittore, disegnatore, esperto di pittura, architetto vi ricorderà che il bianco è la somma dei colori. Quello che si ottiene unendoli tutti. Quindi, quella copertina non è la tela. È già il quadro. Il più prezioso, inestimabile, che non ti stancherai mai di guardare, anche dopo un milione di volte, a caccia di nuove sfumature sparse lì dentro.
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