Le major di Hollywood, nei prossimi mesi, inizieranno a togliere prodotto a piattaforme distributive come Netflix. Lavoreranno molto sulle finestre, sui contratti di esclusiva. E i primi passi li faranno Disney e Time Warner, con tutti gli altri studios a seguire. Netflix, come Apple e Amazon, andranno avanti a produrre contenuti esclusivi. Hanno la forza finanziaria per farlo, e, quando avranno raggiunto un livello massimo di clienti, potranno decidere di rivendere anche a piattaforme terze i loro film, serie tv, cartoon o documentari, monetizzando il magazzino titoli.
Queste le impressioni di Giorgio Tacchia, fondatore, presidente e amministratore delegato di Chili, appena rientrato a Milano da un tour a Los Angeles presso i principali studios. Tour che assume ancor più significato se si tiene conto che Chili è l’unica società italiana, e probabilmente del mondo, ad avere nel suo azionariato cinque delle sei più importanti major: 20th Century Fox, che ormai significa pure Disney, e poi Paramount, Warner e Sony. Manca solo Universal.
D’altronde, come spiega Tacchia, «Disney compra Fox e At&t acquista Time Warner anche come difesa, per chiudere il rubinetto e provare a spingere sul digitale, facendo da soli il business to consumer, o direttamente, creandosi proprie piattaforme ott, o indirettamente con alcuni partner tipo Chili».
Il momento per gli studios è certamente complicato.
Da un lato c’è la consapevolezza di quanto sia difficile lanciare un nuovo brand di piattaforma ott che possa competere con Netflix, Amazon o Apple, soprattutto quando hai in casa marchi tipo Harry Potter o Spiderman che invece non avrebbero bisogno di alcuna comunicazione, essendo già stranoti nel mondo. Dall’altro, tuttavia, le major non hanno più voglia di stare dentro piattaforme come Netflix, di alimentarle perdendo, di fatto, il controllo del business.
«E infatti Apple, che sta arrivando, Amazon, che sta arrivando, e Netflix, che continua a crescere, sono progetti che ormai viaggiano lontani dal mondo degli studios. Investono molto in produzioni originali». Ma è un modello di business sostenibile quello di Netflix, a botte di 12 miliardi di dollari di investimenti all’anno in produzioni originali, 2,5 miliardi di dollari di cassa bruciata e oltre 10 miliardi di dollari di debiti col sistema finanziario? «Assolutamente sì», risponde Tacchia, «perché gli investimenti li possono e li devono fare. Le produzioni Netflix sono di altissimo profilo, oltre 100 milioni di dollari a produzione completa. Ma questi costi li scarico su 180 milioni di clienti, quindi mezzo dollaro a cliente. E poi quelle produzioni le uso come comunicazione, per conquistare nuovi clienti e conservare i vecchi. Peraltro Netflix è proprietaria esclusiva di tutti questi nuovi contenuti. I clienti crescono, il contenuto è tuo, il modello funziona. In futuro, quando la base clienti raggiungerà il suo massimo, Netflix potrebbe anche decidere di vendere a terzi i suoi contenuti esclusivi, cederli ad altre piattaforme facendo ulteriori ricavi e monetizzando il magazzino. Secondo me è una strategia sostenibile, e non starei tanto a guardare quanta cassa brucia. La cassa bruciata è un concetto molto italiano. Netflix guarda invece alla capitalizzazione in borsa».
Nelle piattaforme tipo Netflix ci sono le nuove produzioni. Dalla parte delle major, però, resta la crema dello show business e dell’intrattenimento, i grandi marchi. «E Chili sta dalla parte della crema. Diffondiamo i contenuti delle major, facciamo da piattaforma, esploriamo i dati. C’è innovazione di prodotto, combattiamo la pirateria, diamo una experience unica (dalle anticipazioni su un film mesi prima dell’uscita, al noleggio o acquisto del film, del merchandising collegato, dei vestiti o gioielli indossati dagli attori, del biglietto per vedere il film in sala, di pacchi regalo, ndr), funziona come aggregatore di cinema e come società di analisi di mercato. Siamo forti in Italia, cresciamo in Gran Bretagna, a fine novembre partiamo bene in Germania. Ovviamente ci servono economie di scala, siamo ancora piccoli, anche se ormai superiamo i due milioni di clienti». E cosa ne pensa Tacchia delle iniziative di Rakuten, una piattaforma simile a Chili (dove, cioè, non ci sono abbonamenti mensili, ma si acquistano o noleggiano contenuti volta per volta), che si è messa a produrre film originali? «Mah, io sono contrario. Se sei una piattaforma distributiva non dovresti produrre, ognuno deve fare il suo mestiere. Comunque per produrre ci vogliono capacità finanziarie enormi e credibilità che ovviamente noi non abbiamo. Peraltro c’è anche il rischio di fare arrabbiare le major che magari ti tolgono il loro prodotto. Rakuten fa cose strane, tutto sommato è un gruppo piccolo rispetto ad Apple, Amazon o Netflix. Anche Chili si è messa a co-produrre documentari in 8K. Ma lo facciamo solo per consolidare la partnership con Samsung, che ha bisogno di contenuti in 8K per i nuovi apparecchi tv».
Chili chiuderà il 2018 con ricavi per 28-30 milioni di euro (erano 14,78 milioni nel 2017), ed è ovviamente aperta a nuovi ingressi nel capitale (per esempio Universal, che è l’unica major che manca), poiché, come detto, «serve fare scala nei vari paesi. L’obiettivo», conclude Tacchia, «è la quotazione, ma in questo settore si quotano società che arrivano a 60-100 milioni di fatturato, con una previsione di ebitda positivo nei successivi 12-18 mesi. Per Chili è ancora presto. Poi, però, quando ci si quota, ho visto che i multipli che il mercato ha applicato per queste ipo sono di 6-12 volte i ricavi». Ovvero, supponendo ricavi per 100 milioni di euro, tra i 600 milioni e gli 1,2 miliardi di euro. Per la felicità degli azionisti.
Claudio Plazzotta, ItaliaOggi