L’attrice americana è la protagonista del film di Björn Runge in sala dal 4 ottobre
Scosta una tenda nell’atrio di un bistro. Sorride con gli occhi. “Sono nata per il teatro” dice. “Le entrate sceniche, l’oltraggio, l’esagerazione fanno parte del mio mestiere. Dovremmo tutti portare un po’ d’arte nella vita degli altri. Una cosa l’ho imparata: noi attori finiamo sempre con lo svelare troppo di noi”. Settantun anni, sei nomination all’Oscar. “È una vita che la gente mi scambia per Meryl Streep; mi domando perché i membri dell’Academy non prendano finalmente quest’abbaglio”(occhiolino). Glenn Close è cresciuta a pane e Broadway, prima del salto verso Il mondo secondo Garp al fianco di Robin Williams, a cui sono seguiti Il grande freddo, Il migliore con Robert Redford, Attrazione fatale (“Coltellacci, conigli bolliti… Facevo passare un brutto quarto d’ora a Michael Douglas”) e La carica dei 101 (“I corsetti e le mantelline d’organza hanno messo a dura prova la mia forza di volontà. Ma per Crudelia De Mon questo e altro”). Non mette da parte oggetti di scena “però a casa ho il mio angolo-museo”. Un esempio? “Un elefante di ceramica appartenuto a mio padre, uno dei primi chirurghi ad essere spediti nell’allora Congo belga. Ci restò sedici anni”. E ancora: “Conservo una lettera di Katharine Hepburn, scritta di suo pugno (l’ha fotografata Victoria Hely-Hutchinson per il Wall Street Journal Magazine, ndr.). Vedere la mia attrice del cuore al Dick Cavett Show, di notte, mentre ero studentessa al college, è stato decisivo. Là ho capito che recitare sarebbe stato il mio destino. Ho confessato l’aneddoto a Katharine di persona, al Kennedy Center Honors. Lei ha preso un foglio e ha scritto: Sono felice di averti persuasa ad unirti a questa terribile professione. E, diciamocelo, a questo modo delizioso di godersi la vita”.
Tony, Obie, Emmy, Golden Globe, Screen Actors Guild Award: manca una statuetta all’appello. The Wife – Vivere nell’ombra, dal 4 ottobre al cinema con Videa, sarebbe il candidato ideale (il numero 7). La moglie del titolo è lei. Nel film di Björn Runge (adattamento del romanzo di Meg Wolitzer, ambientato negli anni Novanta) interpreta la sessantenne Joan Castleman, moglie di Joe (Jonathan Pryce) appena designato come vincitore del premio Nobel per la letteratura. La verità è che, dei due, è Joan la scrittrice; il sessismo in letteratura l’ha spinta, sin da giovane, a mandar avanti il marito, sprovvisto di talento ma carismatico. “In tempi di MeToo e Time’s Up, le donne che hanno subìto molestie sono ascoltate e credute. Un passo avanti rispetto a una generazione fa. Certo, dobbiamo tutti trovare un equilibrio, qui. Gli esseri umani sono fallibili e imperfetti. Credo sia attuale la scelta di una donna che, per vedere le sue opere riconosciute, decide di ‘farsì uomo” racconta l’attrice.”Al liceo ho girato parecchio con un gruppo musicale formato da quasi soli uomini e mi sono fatta un’idea del mondo e del maschilismo”. Biörn, il regista di The Wife, a un certo punto cattura con uno zoom lo sguardo dell’attrice: “Quando Joan ascolta la telefonata di rito per il Nobel, negli occhi si leggono vittoria, fierezza, rabbia e malinconia. Tutte insieme. A quante donne è stata negata una carriera solo perché donne? Joan non è una moglie come le altre. È un’inventrice. Fabbrica un re per le masse. E quando un biografo le si avvicina, minacciando di scrivere come stanno davvero le cose, lei risponde: Non dipingermi come una vittima. Sono più interessante di così”.In The Wife Joan dice: “Non c’è nulla di più pericoloso di una scrittrice emotivamente ferita” e per Close vale lo stesso: “Ho il mio lato istintivo, animale. A differenza di Joan però non amo il confronto, non sono una combattente. Nella mia carriera ho capito che a volte si combatte, altre si resta immobili. Congelate. Non si può sempre reagire nella vita. La realtà è troppo lontana dalla pagina di un libro o da un film”. Sulla relazione che il suo personaggio instaura con Joe/Jonathan Pryce “ammetto di essermi ispirata a mia madre. I miei si sono sposati a diciotto anni; mamma a casa senza aver finito la scuola, papà in guerra e poi dottore. Tutto quello che vedevo in casa era l’amore sublimato di mia madre per mio padre. Il suo credere, incessante, di non aver combinato nulla nella vita. Di essere rimasta nell’ombra”. Close ha paura che la pazzia sia una tana della sua famiglia: il nipote è schizofrenico, la sorella bipolare. “Mi batto per le malattie mentali, sono vicina a chi soffre”. È portavoce dei diritti Lgbtq, scende in strada per l’aborto. “Continuo a credere che Trump stia creando solo divisioni nel paese e non porti buone cose” aggiunge. L’industria ama la sua etica del lavoro. La franchezza. A Broadway ha persino osato interpretare Norma Desmond nella versione musical di Viale del tramonto che potrebbe avere una trasposizione cinematografica. In autunno è in scena in Mother of the Maid al Public Theater di New York nella parte della “donna dietro Giovanna d’Arco”. Al suo fianco in The Wife c’è la figlia, Annie Starke (“Un’artista straordinaria. Attraverso me, sa quanto sia duro questo ambiente”). Un’icona di oggi? “Charlotte Jones Anderson, l’executive vice president dei Dallas Cowboys; un’imprenditrice – la prima donna nel settore – che la National Football League ha imparato a rispettare”. Ma come fa una “non combattente” come Glenn Close ad avere una carriera che dura quarant’anni? “Hey, ho detto che non sono una combattente… nella vita”.
Filippo Brunamonti, Repubblica