L’umorismo di Spike Lee affonda l’America razzista

L’umorismo di Spike Lee affonda l’America razzista

La storia del primo uomo di colore infiltrato nel Ku Klux Klan è resa con freschezza, indovinata la ricostruzione d’epoca

Incredibile la vicenda narrata nel libro Black Klansman dal protagonista stesso Ron Stallworth. Primo uomo di colore ammesso nel corpo di polizia di Colorado Spring, un giorno il giovane agente (siamo nel 1978) stabilisce un contatto telefonico con il Ku Klux Klan locale, spacciandosi per un difensore della purezza ariana; e allo scopo di infiltrarsi nel gruppo sceglie come suo alias bianco Flip, agente della narcotici che, paradosso dei paradossi, è ebreo.

Ovviamente David Duke – facciata suadente del KKK che allora scambiò incautamente un «negro» (e il suo alter ego «giudeo») per un ariano – non ha gradito di esser dipinto in chiave caricaturale. Ma in realtà il film è qualcosa di più di una satira (del resto quanto mai necessaria) dell’America razzista. Regala autentica emozione l’immagine di un ispirato Harry Belafonte, 91 anni, seduto fra gli studenti a rievocare un vergognoso episodio di linciaggio del 1956; crea incanto il gioco di una macchina di cinema che, trascorrendo sui visi di astanti rapiti dalla focosa oratoria dell’attivista Kwame Ture, ne esalta la bellezza afro, come in una sorta di ideale risposta alla degradata rappresentazione della gente di colore in Nascita di una nazione, il reazionario capolavoro di Griffith qui opportunamente citato.

Con un bel colpo d’ala, il finale ci traghetta nella Charlottesville dell’agosto 2017, marchiata dalla violenza neonazista, sul suggello di un Trump che si finge equo distribuendo torti e ragioni su entrambi i fronti dei suprematisti e dei democratici. Ma, applicabile pure da noi, il messaggio di Spike suona chiaro: la parte giusta è solo una ed è la seconda.

La Stampa

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