Dopo un’impasse durata 61 giorni, Marcello Foa, appena proclamato presidente della Rai, abbandona la riservatezza elvetica e regala al Corriere della Sera una battuta: «Mi sento La donna che visse due volte. Spero di non finire come la protagonista del film di Alfred Hitchcock». Se non altro, stavolta non potranno accusarlo di preconcetta ostilità al gender. L’ex amministratore delegato del gruppo che edita il Corriere del Ticino ha avuto bisogno di un secondo voto della Vigilanza. A nessuno dei suoi 28 predecessori fu mai accordato il bis.
Non teme che il nuovo parere sia impugnabile dal punto di vista giuridico?
«I legali interpellati lo escludono. Non esisteva alcuna norma che vietasse la riproposizione dello stesso candidato. Senza contare che il 1° agosto non fui bocciato: mancò solo il quorum perché Pd, Forza Italia e Leu non votarono. A parte una scheda bianca, gli altri 22 commissari erano a mio favore».
Ma se per qualche ricorso dovessero impallinarla, che succederebbe?
«Ho letto di piani B, C, D, E, con direzioni di reti, tg e molto altro. C’era e c’è un piano A e solo un piano A: la presidenza».
Lei rappresenta il primo caso di un padre che si fa raccomandare dal figlio per ottenere un posto di lavoro.
«Questa non l’avevo ancora sentita. Però è molto bella».
È un fatto che Leonardo Foa, 24 anni, figura nello staff di Matteo Salvini.
«Guardi, mio figlio non ha avuto un contratto a tempo determinato al ministero degli Interni per grazia ricevuta. Vuole conoscere il suo curriculum?».
Mi legge nel pensiero.
«Liceo francese a Milano. Laurea a 21 anni in Economia aziendale alla Bocconi. Subito assunto da Azimut. Master in business development all’École de management di Grenoble: appena 40 studenti da tutto il mondo. Nel 2017 s’è accorto che Salvini spopolava sui social media e, per scrivere la tesi, ha chiesto di fare uno stage nell’azienda che ne cura i profili web. Alla fine gli hanno proposto di restare. Ma aveva altre offerte importanti».
E lei quando ha conosciuto Salvini?
«Nel 2015, a un convegno. Era un lettore accanito del mio blog, però io non lo sapevo. Nel 2017 m’invitò a una tavola rotonda con l’economista Alberto Bagnai e, senza preavviso, mi chiese di parlare a braccio per dieci minuti. Anche Gianroberto Casaleggio mi leggeva e mi citava spesso. Poco prima di morire, il guru dei 5 Stelle volle conoscermi. Fu un incontro molto bello. Due ore che consolidarono una reciproca stima intellettuale».
Ma davvero Salvini non l’aveva avvisata di tenersi pronto per la Rai?
«Mai saputo nulla delle sue intenzioni, giuro. A fine luglio ero partito con la famiglia per l’isola greca di Skyros. Di solito, quando vado in vacanza, nella valigia metto sempre giacca, camicia e cravatta, un tic da vecchio inviato: non si sa mai. Stavolta solo braghette e t-shirt, volevo riposarmi. Giovedì 26, alle 21, mi ha telefonato Salvini per sondare la mia disponibilità. Subito dopo è giunta una comunicazione anche da Palazzo Chigi. Ho chiesto: quanto tempo mi date per decidere? “Due ore”, è stata la risposta».
In queste settimane a viale Mazzini si è sentito accettato o sopportato?
«Osservato. Da tutti, uscieri compresi. Non è che la stampa mi abbia trattato bene, per cui si erano fatti l’idea di un troglodita fanatico. Poi hanno scoperto che sono cortese e ragionevole».
Ora non potrà più provare «disgusto» per una dichiarazione del capo dello Stato.
«Ci tengo a chiarire che, anche nelle polemiche più aspre, non ho mai offeso le persone. Sono andati a pescare un tweet, ma non sono riusciti a trovare un solo articolo in cui criticassi irrispettosamente il presidente Sergio Mattarella, che stimo per il ruolo di servitore dello Stato e per il tributo pagato dalla sua famiglia nella lotta alla mafia. Spero di avere l’occasione per ribadirglielo di persona».
Come può un giornalista senza esperienza di televisione gestire la Rai?
«Per sette anni ho amministrato anche Tele Ticino e Radio 3i, che ha triplicato l’audience e oggi è l’emittente privata più ascoltata in Svizzera».
Ma lei a Lugano seguiva la Rai?
«Certo, regolarmente».
Che cosa le piaceva di più?
«Sfide, novità di Rai 3 degli anni Novanta, per la sua tensione narrativa, e Virus di Nicola Porro, bell’esempio d’informazione imparziale. Infatti fu chiuso».
I suoi maestri Indro Montanelli e Mario Cervi, che io sappia, guardavano solo «L’ispettore Derrick» su Rai 2.
«È vero, e guai a entrare a quell’ora nell’ufficio del direttore. Per loro provo nostalgia. Conservo decine di originali degli editoriali di Montanelli, recuperati in tipografia. Li scriveva di getto, con rare correzioni a mano. Vado anche molto fiero di una risposta data di suo pugno a una missiva che gli consegnai nel 1992 e che, con mia grande sorpresa, mi ritrovai pubblicata nella posta dei lettori: “Questa lettera, caro Foa, potrei averla scritta io”».
Che mandato ha avuto dal governo?
«Ampio e fiduciario. La parola d’ordine è portare aria fresca in Rai».
Traduco: cambiare i direttori dei tg.
«Fa parte del mandato. Sono stati nominati dal precedente consiglio di amministrazione e non tutta l’informazione è sembrata esente da settarismi».
Conosce Steve Bannon, l’americano che sussurra al leader della Lega?
«Lo incontrai a Lugano a margine di una conferenza. Un genio della comunicazione, determinante nell’ascesa di Donald Trump. Un po’ sopra le righe. Parla sempre, parla tanto. L’ho rivisto solo un’altra volta in circostanze fortuite a un colloquio dove c’era Salvini».
Lei è ebreo? Glielo chiedo solo perché i suoi detrattori l’accusano persino di questo.
«No, sono cattolico, come i miei genitori. La mamma, greca, nacque ortodossa. Era ebreo il nonno Egizio, che s’innamorò di una cattolica e la sposò».
Chi sono «Gli stregoni della notizia», per stare al titolo del suo saggio?
«Gli spin doctor che orientano la stampa. Dopo averne smascherato le tecniche, ho provato sulla mia pelle la loro perfidia. L’inviato del tedesco Die Zeit è andato a rileggersi tutti i 1.176 articoli che ho scritto in dieci anni sul blog del Giornale e ha scoperto che ne hanno scovati solo cinque per demonizzarmi. Lo 0,43 per cento dell’intera produzione».
Il blog s’intitola «Il cuore del mondo». Sicuro che il mondo ce l’abbia, un cuore?
«Io ci credo. Non voglio arrendermi al male, al pessimismo. Ho mollato tutto e lasciato la Svizzera perché sono convinto che l’Italia sia piena di talenti da valorizzare. Quando il dovere ti chiama, non puoi voltarti dall’altra parte».
Stefano Lorenzetto, Corriere della sera