‘Maniac’, viaggio nella mente umana tra dolore e follia: “Siamo tutti connessi ma sempre più soli”

‘Maniac’, viaggio nella mente umana tra dolore e follia: “Siamo tutti connessi ma sempre più soli”

Arriva su Netflix dal 21 settembre la serie con Emma Stone, Jonah Hill, Justin Theroux in cui una sperimentazione farmaceutica trasporta i protagonisti in mondi fantastici. L’incontro a Londra con gli autori Cary Fukunaga e Patrick Somerville: “Abbiamo voluto raccontare i rapporti umani per capire come nascono”

LONDRA – Basta vedere Annie (Emma Stone), i capelli lunghi biondi, lo sguardo furioso, aggirarsi per le strade di New York, per capire che nasconde un segreto. Il malinconico Owen (Jonah Hill), figlio di un ricco industriale, si sente spiazzato anche quando si rintana nella sua casa grande come una scatola di scarpe. Chi sono? Perché vogliono partecipare alla sperimentazione farmaceutica organizzata alla Neberdine Pharmaceutical and Biotech dal bizzarro dottor Mantleray (Justin Theroux)? Nessuno è immune dal dolore, anche il dottore è vessato dalla madre piovra Sally Field.

Maniac, la nuova serie di Cary Fukunaga, geniale regista di True detective(oltre che di Jane Eyre e Beasts of no name) che sarà disponibile su Netflix dal 21 settembre, è un saggio di creatività, intelligenza, follia. Un esperimento ambizioso in cui entri senza accorgertene, ti cattura; Stone vuole sciogliere il nodo che la lega alla madre e alla sorella. Hill cancellare il dolore, gli incubi che lo portano altrove, capire se davvero, come dice una diagnosi mai confermata che gli sta rovinando la vita, è affetto da schizofrenia. Ma davvero bastano tre pillole per cancellare il passato e trovare la felicità?

Ispirata alla serie norvegese con lo stesso titolo, Maniac è stata riletta dallo sceneggiatore Patrick Somerville che insieme a Fugunaka, ha voluto esplorare la mente umana. “La fiction norvegese” dice il regista, padre giapponese, madre svedese, “era ambientata in un ospedale psichiatrico. La malattia mentale è una cosa seria. Noi abbiamo voluto creare mondi paralleli, raccontare come, in una società in cui siamo sempre più connessi, in realtà siamo sempre più soli”. “Alla fine l’unica cosa che conta” spiegano Somerville e Fukunaga a Londra “sono i rapporti umani, è interessante capire come nascono. Per scrivere Maniac insieme a Patrick abbiamo analizzato i nostri rapporti personali, d’amicizia e familiari. Una sorta di autoanalisi”.

Dal fantasy stile Signore degli anelli (Stone in un episodio diventa elfo insieme alla sorella), alla black comedy, Maniac è un saggio di creatività (dai costumi alle scenografie con dettagli curiosissimi, come i vecchi computer Ibm del centro medico o il koala viola che gioca a scacchi), ma è soprattutto il viaggio di autori che hanno agito con la massima libertà. “Con Netflix” spiega Fukunaga “questo è possibile, puoi esplorare i formati, non a caso alcune puntate sono più lunghe, altre più corte. Per far compiere ai protagonisti il loro viaggio, abbiamo costruito mondi diversi: è stata la vera sfida”.

La magia riesce grazie al talento degli attori. Non è un caso se sia stata proprio Emma Stone a volere come partner Hill, sono amici da una vita, hanno lavorato insieme in Superbad nel 2007, e in Maniac la complicità è perfetta. Theroux sorride mentre spiega che “ci affidiamo sempre di più alle medicine per risolvere i nostri problemi e sappiamo bene che i farmaci funzionano, diciamo la verità. Ma non per tutto, e soprattutto non bastano tre giorni per risolvere tutti i problemi, come predica il dottor Mantleray”. Basettoni, parrucca nera ala di corvo, ha l’aria di essersi molto divertito a interpretare questo scienziato pazzo. “Sì, è pieno di humour ma l’ironia è mescolata a una vena di tristezza, perché Mantleray è l’uomo più triste del mondo. Mi ha ricordato certi personaggi di Peter Sellers”.

Il mondo “normale” e quello fantastico in cui vengono trasportati i protagonisti dopo aver assunto le pillole, s’intrecciano. Forse i viaggi mentali non portano da nessuna parte o forse siamo condannati a rivivere il passato. Il regista non ha risposte, gli attori sorridono. Perché alla fine, forse, è normale non sentirsi normali.

LaRepubblica.it

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